Umschlag

Questo libro è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi e gli eventi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone viventi o defunte, luoghi o fatti reali è puramente casuale.

Della stessa autrice:
Revolver. Le ragazze del porto di Amburgo
 
 
 
Titolo originale: Blaue Nacht
© Suhrkamp Verlag Berlin 2016
 
© 2017 Emons Verlag GmbH
Tutti i diritti riservati
 
Impaginazione: César Satz & Grafik GmbH, Colonia
Elaborazione ebook: CPI Books GmbH, Leck
 
ISBN 978-3-96041-300-4
 
Distribuito da Emons Italia S.r.l.
Via Amedeo Avogadro 62
00146 Roma

www.emonsedizioni.it

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SIMONE BUCHHOLZ

LA NOTTE DEL COCCODRILLO

Traduzione di Fabio Lucaferri

Per Rocco Willem Bruno

Conquistavo la mia poltrona preferita accanto all’ascensore e mi fumavo una sigaretta. Quando mi andava di dormire, mi ritiravo nell’ufficio persone scomparse, lasciando detto al poliziotto di guardia che non volevo essere disturbato, a meno che non uscisse dalla telescrivente qualcosa di veramente scottante.

Weegee (Arthur Fellig), fotografo della polizia a New York fra gli anni Trenta e i Sessanta.

Un calcio sul rene destro, per piegarti le ginocchia.

Uno in pancia, e qui vai al tappeto.

Un altro sul rene, il sinistro stavolta, per tagliare corto.

Poi gli sfollagente, sfilati da sotto le giacche.

Tre giacche, tre sfollagente.

Gamba sinistra, gamba destra.

Braccio sinistro, braccio destro.

E sei piedi per dodici paia di costole.

È un demone a tre teste, il tuo demone personale.

Evocato appositamente per te.

Il guizzo di una pinza.

L’indice destro.

Uno schiocco secco.

Probabilmente ignorano che sei mancino.

Ancora un ultimo calcio, a qualcosa di già rotto.

Alla fine ti lasciano a terra.

Cinque minuti in tutto, al massimo sei.

Il dolore è puro, sconcertante, gelido e bollente al tempo stesso. È ovunque. Il sangue cola caldo dalla mano destra, quasi consolatorio.

Dunque è così che finisce.

CANDELE PER TUTTI, PREGO

Il motore emette un ultimo colpo di tosse, si raschia la gola come un vecchio sotto un cielo scuro, e s’ingolfa. Scendo, mi siedo sul cofano color ruggine, il viso esposto all’aria fredda, pesante.

Sigaretta.

Prima cosa: asciugare un po’ di nebbia, fumando.

Un fine settimana in campagna, che scemenza.

Proprio io. È stata un’idea bacata fin dall’inizio. Comprati una macchina, almeno cambi aria. Fai qualcos’altro.

Trovata geniale, davvero.

La macchina è un bidone, al volante sono peggio di una mucca sui pattini, e mai nessuno che mi accompagni quando ho voglia di andare da qualche parte. Così alla fine resto sempre da sola come un cane, cosa che in città mi pesa meno che altrove. Fare una gita in campagna da soli è come mangiare del nastro adesivo.

In città c’è qualcuno che mi aspetta, ho finalmente la sensazione di essere utile. E invece sono bloccata qui. Anche se la persona che mi aspetta non sa di aspettarmi, visto che è all’ospedale ridotta a un ammasso di carne trita.

Mi hanno chiamata. Lo fanno sempre in casi simili.

Non hanno chiamato nessun altro, perché non sanno chi sia.

Telefono a Faller, grazie a dio ancora non ci siamo dimenticati l’uno dell’altra. Non è ancora successo nulla che possa recidere la nostra confidenza.

Risponde al secondo squillo.

“Buongiorno, ragazza mia.”

“Buongiorno, Faller.”

“Che mi dice di bello?”

“La Ford ha tirato le cuoia.”

“Oh.”

“Può passarmi a prendere? Ho fretta di tornare in città.”

“Dove si trova?”

“Fucking Nowhere,” dico.

“E dove precisamente?”

“In Meclemburgo. Fra Zarrentin e lo sa il diavolo dove. Da qualche parte sulla B195, a nord dell’autostrada.”

“Ah.”

Faller è nella zona ovest di Amburgo, presumibilmente a colazione. Se si sbriga, può essere qui in poco più di un’ora.

“Non si muova,” mi ordina. “Arrivo. Però mi dia un po’ di tempo.”

“Ho le sigarette. Mi chiami quando è nei paraggi, va bene?”

Attacco, poggio entrambe le mani sul cofano ormai quasi freddo. Non abbiamo fatto amicizia, io e questa vecchia auto. Può darsi che l’approccio sia stato niente male, può darsi che ci fosse un’intesa superficiale, può darsi perfino che qualcuno si sia detto: Calzano a pennello! Strano che nessuno avesse ancora pensato ad accoppiarli.

Invece alla fine è stato soltanto uno di quegli incontri seducenti all’inizio, ma che a uno sguardo più attento non sopravvivono alla luce del mattino seguente.

Alzo il bavero della giacca, tiro fuori la borsa dal portabagagli e m’avvio a piedi lungo la strada, in direzione ovest. Davanti a me un paesaggio aperto fatto di campi e pascoli e prati e qualche albero solitario. Una spruzzata d’ocra qui, una di verde là. Accendo un’altra sigaretta e ascolto il rumore dei miei stivali. Facciamo presto a trovare un ritmo, io e i miei stivali, marciamo sull’asfalto che è una gioia.

Faller mi troverà.

Dietro di me, a est, al di là delle nuvole umide e implacabili, lontano nel cielo incredibilmente ampio del Meclemburgo, spunta un miserabile spicchio di sole.

Sembro un cowboy a cui hanno ammazzato il cavallo.

Faller sta attraversando una specie di tardiva crisi di mezz’età. Stento ancora a credere che abbia comprato una Pontiac azzurra degli anni Settanta, modello Catalina. È stata sua moglie a pregarlo di acquistare una macchina così, quando si è accorta che lui iniziava, con relativa disinvoltura e sempre più insistenza, a mangiarsi le ragazze con gli occhi. O meglio, ad affermare che sempre più ragazze se lo mangiavano con gli occhi.

“Ti serve un’occupazione,” aveva stabilito lei. Adesso ce l’ha. La Pontiac gli dà sempre noie. Che il suo ferrovecchio funzioni quando il mio getta la spugna è la mia grande fortuna, altrimenti chi diamine avrei potuto chiamare?

Al momento Calabretta gira con un gran cartello di FUORI SERVIZIO appeso proprio davanti al cuore. Una vista squallida che questa mattina non potrei sopportare.

Sberla dorme ancora e dato che fino a poche ore fa si trovava dietro il bancone del suo bar, anche in stato di veglia non sarebbe servito granché al volante.

Carla e Rocco non hanno la patente e per giunta sono ufficialmente incaricati di badare a Calabretta.

Nel complesso, la banda di cui faccio parte è piuttosto carente in quanto a mezzi di trasporto.

Faller mi affianca lentamente, la sua Pontiac gorgoglia. Si ferma e abbassa il finestrino del lato passeggero.

“Le avevo detto di non muoversi.”

“Non ho avuto scelta.”

“Per il resto? Passato un buon fine settimana?”

Apro la portiera, getto la borsa sul sedile posteriore e mi lascio sprofondare nella pelle nera.

“Altroché, un fine settimana da sballo. Questa è la mia ultima gita del cazzo in una cazzo di campagna.”

Mi squadra scuotendo la testa.

“Che le è saltato in mente, Chastity? Abbandonare la città? Lei non può stare senza il suo cemento.”

E che ne so. Ho pensato: Fammi dare ascolto agli amici, qualcosa succederà. A scaldare la sedia mi viene la smania. Ufficialmente sono ancora procuratrice, però in pratica dopo quella storia al porto mi hanno tagliata fuori dai giochi. Quando si è trattato di decidere come procedere con una come me ci hanno girato intorno un bel po’. Visto dall’esterno, se spedisci al fresco un tuo superiore per corruzione ti spetta una promozione. Invece dall’interno i capi non lo vedono di buon occhio. E poi la grana dell’uso illegittimo di arma da fuoco. Che abbia salvato la pelle a Calabretta è una cosa; che abbia colpito un brutto ceffo non alla gamba, ma ai gioielli di famiglia, un’altra. Non so che ne sia stato poi del tipo, di questa storia non si è saputo niente. La stampa non ha battuto ciglio. Non so come hanno fatto i colleghi e preferisco non saperlo. Mi hanno assicurato che non ho niente da temere, hanno preso la pistola militare di mio padre e mi hanno tolta dalla circolazione. Alla fine, dopo mesi sospesa nel nulla, tirano fuori dal cilindro un nuovo incarico. Un ufficio creato apposta per me: Protezione vittime di violenza.

Quando ad Amburgo uno finisce quasi al cimitero per un pestaggio, un proiettile o perché l’hanno investito, quando viene spinto giù da un ponte o da una finestra e non ci resta secco, quello è un caso di mia competenza.

Pazzescamente eccitante.

Fate largo, arriva quella pagata per tenere la mano alla vittima.

Durante le prime settimane sono rimasta nell’ombra, da brava, come si aspettavano da me. Ormai mi faccio meno scrupoli, mi avvento senza riguardo sui pochi casi che piovono dal cielo, anche se i patti non erano proprio questi. Finora nessuno ha aperto bocca. D’altronde che potrebbero dire? In fondo siamo tutti nella stessa barca, il che significa non dare troppa importanza a un uomo senza più le palle.

Tanto per intenderci.

Nel complesso una situazione di provvisorietà che non mi fa saltare di gioia.

Nel complesso mi sento continuamente come una tigre in gabbia.

E dunque la fesseria della scampagnata.

“Dove siamo diretti?” domanda Faller con una voce da tassista. “A casa?”

“Io devo andare al St. Georg. All’ospedale.”

“Ah. Un nuovo paziente.”

“Un nuovo assistito,” lo correggo.

“E la sua macchina?”

“Che renda felice qualcun altro.”

Faller accelera e la Pontiac emette un rombo sotto il mio culo. È un po’ come viaggiare su un carro armato.

Fa’ sempre quello che ti suggerisce il cuore, oppure seppelliscilo nell’ansa del fiume.

Mio padre si compiaceva spesso di simili uscite, quando gli chiedevo un consiglio. Un proverbio indiano, suppongo. Quei vecchi sputasentenze avevano una frase a effetto per ogni occasione.

Il mio cuore mi dice: Siediti e prendigli la mano. Non sembra che qualcun altro lo farà al posto tuo.

Le facce solitarie le riconosco a miglia di distanza.

La mano è calda e asciutta e sorprendentemente morbida per le sue dimensioni. Una vera e propria pala. Provo a tenerla con entrambe le mie. Il risultato è patetico.

L’hanno ricoverato stamattina presto, poco dopo le quattro. Braccia, gambe e costole fratturate in più punti, la clavicola sinistra fracassata. Una spessa fasciatura avvolge la mano destra. L’infermiera dice che ha perso l’indice. Però non è che un indice si perda così. Non ha ferite alla testa e anche i polmoni sono illesi. I reni gonfi, ma tutto sommato funzionanti. A una vena del collo è attaccato un catetere centrale. Da lì entrano i medicinali, liquidi scintillanti come una palla da discoteca che colano da sacchetti appesi a un’asta portaflebo. Gli somministrano sonniferi e probabilmente un’infinità di antidolorifici contro un’infinità di dolori. Siccome fanno di certo effetto e, a parte qualche graffio per l’asfalto, la faccia non riporta molti segni, l’uomo ha un aspetto curiosamente sereno.

I suoi vestiti li ha presi la scientifica. Documenti non ne aveva.

È un vero colosso, con tutte quelle stecche alle braccia e alle gambe entra a malapena nel letto. I capelli mandano riflessi grigio argento, corti ai lati e poco più lunghi al centro. Il suo viso è del tipo tutto spigoli, che gli uomini raggiungono soltanto a una certa età. Valuto che abbia circa cinquanta, cinquantacinque anni. L’età migliore per un uomo, se non fosse messo tanto di merda.

Esatto, se non fosse messo tanto di merda avrebbe qualcosa di George Clooney, ma in formato extra-large.

Le apparecchiature alla parete oltre il letto cominciano a suonare a intermittenza, l’infermiera entra e spinge un paio di pulsanti. Si muove per la stanza con un sorriso compassionevole, come se fossi una parente, pur sapendo che non lo sono.

Mi capita in continuazione.

Non so mai come reagire.

“Che cosa portava?” domando. “Prima della camicia da notte, intendo.”

Lei spegne il sorriso, nei suoi occhi compaiono opachi punti interrogativi lampeggianti.

Okay. Spiacente.

“Dov’è stato trovato?”

“Non lo so di preciso,” dice. “Non distante da qui.”

Il suo sguardo si fa sempre più irrequieto.

Sembra se la sia presa a male che io, che non sono una parente, quantomeno non mi comporti come tale. Sposta nervosamente un paio di oggetti da sinistra a destra, poi esce in fretta dalla stanza, prima che le possa porre altre domande insolenti.

Rimango dal gigante addormentato e lo guardo finché le nubi non coprono definitivamente il cielo e poco a poco diventa buio. A quel punto torno a casa.

Quando scendo dal taxi, gocce di pioggia fredda mi cadono sulla testa. Dalle finestre di Sberla fuoriesce luce gialla.

Sberla è in cucina e prepara un paio di panini al formaggio. Seduta sul pavimento del soggiorno tengo d’occhio due bottiglie di birra, non sia mai diventino calde. È stato Sberla a iniziare con questa storia, l’anno scorso: una candela per quelli di noi che ne hanno bisogno. Attualmente ne bruciano tre, una per Calabretta, una per me e una per la nonna di Sberla, che è a letto, ricoverata in una clinica a nord di Amburgo. Ormai non ci sta più con la testa, di notte devono legarla perché vuole scappare dalle bombe e rifugiarsi nel bunker di Moorweide.

Io non ho mai avuto una nonna.

“Ormai la mia candela si può togliere,” dico.

Sberla è accanto a me alla finestra, con i panini su un piatto. Sul formaggio ha distribuito dei cetriolini.

“Apri la birra,” mi esorta. Sulla mia candela nessun commento.

“Non ne ho più bisogno.”

“Della birra?”

“Della candela. Sto bene.”

“Certo,” fa lui.

Brindiamo e beviamo un sorso di birra, poi addentiamo i panini.

“Come sta il nostro amico italiano?” domanda, mastica due volte, inghiotte. Altro boccone, grande. Ragazzo grande, fame grande.

“Ieri ho parlato al telefono con Carla,” racconto. “Calabretta stava guardando una trasmissione di calcio, dopo aver trascorso la giornata sul divano, però senza coperta. Di tanto in tanto ha perfino risposto alle domande di Carla e ha pure mangiato un piatto di pasta. Lei pensa che cominci a riprendersi.”

“Rocco dice che ha una cera terribile.”

“È logico,” ribatto e addento il panino. Un sapore ricco e succoso. Il cetriolino si spezza fra i miei denti con uno schiocco. Un buon panino al formaggio può salvare vite umane, ne sono convinta.

Calabretta ci ha riprovato con Betty, la nostra avvenente patologa. Negli ultimi anni lei gli aveva risposto picche già diverse volte, probabilmente anche perché lui si era comportato da deficiente. Nelle questioni d’amore Calabretta è una frana quanto me. Invece stavolta Betty c’è stata, dio solo sa perché. Quindi alla fine ce l’hanno fatta, forse sono state le stelle, la luna, l’aria del porto o semplicemente lei è diventata più indulgente. Per un anno intero sono stati come spillati assieme, lui sempre a casa di lei o viceversa, insomma tutto rose e fiori. Un’armonia quasi inquietante, nemmeno avessero il sole in tasca. Poi da un giorno all’altro su Betty è sorto un nuovo sole, migliore a quanto pare. Un professore svizzero incontrato durante un congresso di anatomia patologica a Monaco. Lei ha dato un taglio netto alla sua vita ad Amburgo e alla relazione con Calabretta.

Era l’inverno scorso e da allora nell’animo di quell’uomo è calata la notte.

Beviamo le nostre birre.

Racconto della mia visita in ospedale.

“Non sai chi sia?” chiede Sberla.

“No. E finora nessuno sembra aver notato la sua scomparsa.”

“Che intendi fare?” domanda.

Il mio lavoro, penso. “Andare alla scientifica,” rispondo. “Dare un’occhiata alle sue cose. E stare seduta accanto al suo letto ad aspettare che si risvegli.”

“È sotto protezione?” chiede. Sberla viene dalla strada. Non ha perso l’istinto del pericolo. I suoi capelli arruffati d’un tratto si drizzano come antenne, i suoi occhi verdi si mettono sull’attenti.

“Finché non scopro il motivo del pestaggio, un poliziotto vigila fuori dalla sua porta,” spiego.

Sberla annuisce, abbassa le antenne e beve un sorso di birra.

“Accendiamo una candela anche per lui?” propone.

1982, estate

FALLER, GEORG

Due volte a settimana, poco prima che il cimitero chiuda, vado a trovare Minou. A quell’ora c’è poca gente, solo i vecchi alberi a osservarmi, che annuiscono qua e là verso di me con un ramo. Come compagnia mi basta e avanza. Nessuno sa di me e Minou, né i miei colleghi del dipartimento, né i pochi amici. Nessuno sa che è morta perché ero innamorato di lei.

A Sankt Pauli chi vuole una squillo e non è il suo magnaccia deve pagarne il riscatto. Questo ovviamente lo sapevo. Però non pensavo che qualcuno se ne sarebbe accorto.

Non che fosse successo granché, tutto entro i limiti del servizio. Nessuno può guardare nei cuori, pensavo.

E improvvisamente è morta.

Segna: il prezzo che Minou ha dovuto pagare perché io la volevo.

Le hanno sparato.

Nel quartiere le ragazze sono un modello imprenditoriale, amico. Lo sapevi. Quindi non fare tante storie.

Eccome se faccio storie. Mi manca. Ce l’ho sulla coscienza. Come la giri la giri. Mi butterei da un ponte per il rimorso.

Davanti alla sua tomba cado in ginocchio. Che lo voglia o no.

Talvolta qualcuno le porta dei fiori.

Non io, non ci riesco. Le scrivo piccoli biglietti e li sotterro.

E poi resto lì sulla sua tomba, metà inginocchiato e metà raggomitolato, finché non piomba dal cielo la notte.

Non permetterò che facciano di nuovo una cosa simile, né a me né a nessuno dei miei.

La ragazza della Herbertstraße e lo sbirro innamorato.

Una storia che si preannuncia di merda fin dal titolo.

RILEY, CHASTITY

Le ultime vacanze lunghe, prima che il liceo ci separi tutti quanti, uno di qua l’altro di là.

L’ultima estate, prima che la vita si faccia dura, dice mio padre.

Come se finora fosse stata un giro al luna park!

Porto jeans tagliati e vecchie camicie militari di papà. A volte zoccoli, di solito vado a piedi nudi. Mi piace l’asfalto caldo sotto i piedi. Mi piace dover essere cauta.

Giochiamo a James Bond in riva al Meno. I ragazzi vogliono essere James Bond. Oppure giochiamo alla Seconda guerra mondiale e allora attraversiamo Sachsenhausen sulle nostre bici pieghevoli. Tedeschi contro alleati.

Io sono sempre l’americana.

I ragazzi vanno matti per le camicie dell’esercito americano di papà.

Giochiamo alla guerra o a James Bond, finché il sole non scende dietro le case.

È quando tutta Francoforte si accende d’oro, arancione e rosa, per via dell’arenaria rossa con cui la città è costruita.

La sera, a letto, a volte penso che vorrei avere un’amica, ma non so come fare. E penso che vorrei avere una madre, cioè una madre che sia qui, da me, cioè insomma mia madre.

Ogni sera penso a lei e mi domando per l’ennesima volta come ha potuto andarsene così. E mio padre fuori dalla porta che piange di nascosto per me, per la mia infanzia e per la nostra famiglia disgregata. Io fingo di non accorgermene e provo a tenere duro, maledizione!

Lui non può davvero farci niente.

È voluta andarsene via dal paese bombardato dalla guerra, quando era ancora una bambina.

E quell’uomo, quell’altro ufficiale, l’ha portata con sé.

Me la racconto così, la sera, a letto.

Mio padre non può farci assolutamente niente.

E ciononostante crede che sia tutta colpa sua.

KLASSMAN, HENRI

All’epoca non ero ancora nato. Quindi spiacente, ho poco da raccontare.

Magari mia madre aveva appena conosciuto mio padre, chiunque fosse.

L’unica cosa che so è che mia madre voleva un figlio maschio per chiamarlo Henri, per via dei molti marinai che aveva conosciuto.

CALABRETTA, VITO

Per le strade di Altona, da solo.

Mi piace girare da solo. Cammino avanti e indietro, avanti e indietro, e ogni volta che passo davanti al supermercato dei miei, entro un attimo.

Mi risucchia, quel negozio. Perché un italiano non può tirare semplicemente dritto ignorando la sua famiglia, dice mio padre.

Però preferisco non restare a lungo, di solito esco subito. Fa freddo all’interno. Il frigorifero è troppo grande.

Se mi vede mia madre, mi tocca mettere in ordine la merce. Infilarla nei cartoni, estrarla dai cartoni, dentro e fuori. Detesto ordinare i cartoni.

Non è complicato o chissà che, però mi irrita, perché mi sembra stupido. Come se fosse un pretesto per rimanere in negozio, per non stare fuori a girare.

Ma girare è l’unico modo per pettinarmi il cervello. Quando sto in giro penso con chiarezza.

È il mio modo di ordinare le cose, dico a mia madre.

Ma lei non lo capisce, vuole che ordini i cartoni.

VELOSA, CARLA

La mattina presto da mia nonna a Lisbona, giù all’Alfama.

Mia nonna batte le seppie contro la parete, tutte quelle che riesce.

Così diventano tenere, dice.

Bottino di caccia di mio nonno. Intendo le seppie.

Vale anche per me, aggiunge mia nonna.

Più tardi mio nonno venderà tutto al mercato del pesce. Eccetto la nonna, dice.

La parete accanto alla porta del loro appartamento al piano terra è nera. A causa di tutto l’inchiostro.

Presto, quando andrò a scuola e saprò finalmente leggere e scrivere, prenderò di nascosto un po’ d’inchiostro per fare delle scritte in strada.

Il cielo sul Tejo è rosso e viola.

È per le anime delle seppie, spiega la nonna.

I colori del cielo sono differenti a seconda dei luoghi?

Sì, dice lei, perché dipende da chi ci muore sotto.

MALUTKI, ROCCO

Mia madre è la puttana più bella di tutte. Non solo di Sankt Pauli, ma di tutto il mondo.

Ha anche il seno più bello e grande del mondo.

Mio padre suonava il violino in un’orchestra. Dove sia adesso non si sa, ma non è un dramma, sostiene mia madre. Certe persone non sono fatte per rimanere, dice.

Ce la caviamo anche così. Ogni sera entra denaro contante.

La mattina, quando torna dal lavoro, prende la tavola e stira le banconote.

Bene, sospira sollevata quando finisce e richiude la tavola, adesso è di nuovo pulito.

JOE

Ehi.

Amburgo.

SOLO LA STRADA (E SOPRA LE LUCI COLORATE)

Attenzione.

Oggi sveglia di buon’ora in casa Sberla.

Di lunedì il Blaue Nacht è chiuso e il gestore fa acquisti: liquori, brezel, burro, liquirizia. In mattinata arriva anche la consegna della birra.

Birra in bottiglia.

Alcuni anni fa Sberla ha avuto un’intossicazione da birra alla spina. Tubature malandate. Capita, gli dissi allora. “Non da me,” replicò lui, quando rilevò il Blaue Nacht da quel vecchio grassone di Ali.

Perciò fin dall’inaugurazione un cartello sopra il bancone recita:

BEVETE SICURI.

QUI NESSUN RISCHIO DI INTOSSICAZIONE DA BIRRA ALLA SPINA.

Mi porta il caffè a letto, con un bacio sulla fronte.

Questo si chiama un bel risveglio.

Un attimo dopo è già uscito.

Mi alzo, raccatto gli indumenti della sera prima. Il maglione è in soggiorno, vicino al davanzale della finestra, i jeans anche, la biancheria intima da tutt’altra parte. Come ci riesce, ogni volta?

Mi infilo lo stretto necessario per andare nell’appartamento di fronte, il mio, a farmi una doccia. Il caffè me lo porto dietro.

Più tardi, in taxi, la città scivola ai margini del mio campo visivo. Il grigio sporco da febbraio inoltrato è come immaginato a tavolino, però non con attenzione, bensì buttato lì controvoglia. L’assenza di luce per strada è tale che i lampioni sono sul punto di accendersi, ma per questo è il buio a sua volta a non bastare.

La pessima simulazione di una giornata.

Tocco il suo vestito nero e pesante. Stoffa pregiata, nessuna etichetta. Di sicuro confezionato su misura. La camicia nera è di fattura inglese, le scarpe americane.

Tutt’intorno a me lucenti pareti grigio chiaro. Il linoleum perfettamente levigato sotto i miei piedi inghiotte ogni rumore e ogni odore, la luce al neon qualsiasi forma di calore.

Vorrei quasi non essere sola.

Ogni volta che mi ritrovo in mano reperti come vestiti o un’arma del delitto, oppure un oggetto macchiato di sangue che apparteneva a qualcuno che se l’è vista brutta, è la stessa storia. Penso che quella roba dovrebbe fornire appigli, raccontare particolari su ciò che è successo, come se le cose avessero una memoria. Invece, come sempre, mi comunicano solo una vaga sensazione. Stavolta la sensazione che l’agguato non fosse inaspettato.

Richiudo tutto in buste di plastica, sfilo i guanti e ringrazio i colleghi della scientifica seduti ai loro microscopi nella stanza accanto. Prendo l’ascensore in fondo al corridoio e salgo di qualche piano per dare un’occhiata a come se la passa Calabretta.

Prima venivo spesso alla centrale. Adesso evito, perché mi sento addosso gli sguardi dei colleghi. La mia vita è diventata così contorta che, al confronto, qualche anno fa marciavo dritta come un fuso. Malgrado già allora non riuscissi a scacciare un senso permanente di sbandamento in curva.

C’era da aspettarselo, Calabretta sta uno schifo, ma almeno è presente non solo fisicamente. Nei suoi occhi riconosco inequivocabili segni di vita. Nelle settimane subito dopo la separazione da Betty, al loro posto c’erano due buchi foschi da cui fuoriuscivano tenebre, buchi scavati in un corpo disteso sul divano di Carla e Rocco, in posizione fetale, sepolto dalle coperte.

Da sabato scorso ci sono stati dei progressi, Carla l’aveva accennato. Calabretta non è più disteso sul divano, ma seduto alla scrivania e batte sulla tastiera del suo computer. Quando si accorge di me, alza lo sguardo.

Io mi appoggio alla parete di fronte a lui.

“Come va?”

“Sono felice di vederla,” risponde.

“E io sono felice di vedere lei,” ricambio.

Inspira profondamente ed espira, lo sguardo rivolto fuori dalla finestra.

Fine della conversazione. Mi pare quasi di sentire il suo cuore impietrito nel petto, il suo tentativo di bussare alle pareti, magari di trasmettere un segnale. Ma non esce fuori nulla.

Calabretta riprende il lavoro al computer.

Seguito a osservarlo per un po’, ma da parte sua non ci sono altre reazioni. Allora passo alla stanza accanto, dai colleghi Schulle e Brückner.

“Salve, capo.”

“Buongiorno, capo!”

“’Giorno, signori. Non sono più il vostro capo, lo avete dimenticato?”

“Non fa differenza, capo.”

“Sì, chissenefrega, capo.”

Adoro Schulle e Brückner, mi verrebbe da comprargli un gelato ogni volta che li vedo.

“Come vanno gli affari?” domando sedendomi sul consunto divano di pelle nera nell’angolo.

“Alla grande,” risponde Schulle. “Abbiamo puntato un uomo che probabilmente ha ammazzato la moglie, ma stiamo ancora cercando il cadavere.”

“E vi prendete anche un po’ cura del nostro sconsolato collega?” chiedo a bassa voce.

“Naturalmente,” dice Brückner.

“Lo fate uscire ogni tanto?”

“Per l’amor del cielo, no!”

Si danno una pacca sulla coscia, neppure avessi chiesto se è vero che gli asini volano o la luna è di formaggio.

Schmilinskystraße. Proprio al confine fra la zona degradata dietro la stazione e quella signorile in riva all’Außenalster.

Un palazzo bianco di fine Ottocento, la facciata al piano terra dipinta di grigio che si fonde con l’asfalto quasi senza soluzione di continuità. Davanti, due alberi spuntano dal marciapiede, uno a destra e uno a sinistra, i rami spogli protesi al cielo. Dita di spettri. Sul lato opposto della strada, un terzo albero coperto di ghirlande luminose emana un’atmosfera familiare che risulta non meno spettrale.

L’uomo è stato trovato qui, riverso sul marciapiede, braccia e gambe spezzate e piegate con angolazioni anomale rispetto al corpo. La grande quantità di sangue uscita dalla ferita alla mano destra, sommata ai dolori in tutto il resto del corpo, gli ha fatto perdere coscienza. Il sangue non c’è più, sono già passati a pulirlo, ci vuole un attimo. Ormai sembra quasi come quarantott’ore fa, prima della violenza. Si nota solo un ampio alone opaco, uno spazio pulito che spicca sul resto del grigio esclusivamente per un che di chimico. Al colore manca l’odore della strada.

Mi porto sui gradini d’accesso al palazzo e sospiro rivolta al marciapiede. Percorro con lo sguardo la strada, a destra e a sinistra.

Un solo aggressore?

Improbabile.

Sono state più persone a colpirlo?

Ipotesi più verosimile.

Alzo gli occhi sulla facciata, nel palazzo ci abitano. Non in molti, la maggior parte degli appartamenti è stata rimpiazzata da uffici. Se compi un agguato qui, preferisci che il silenzio, che da queste parti è la regola, torni in fretta. Non vuoi certo tirarla per le lunghe, perciò ti assicuri che non venga opposta resistenza. Conviene agire in gruppo. Anche perché l’uomo all’ospedale è troppo alto e robusto per un solo assalitore. Devono essere stati almeno in due, se non addirittura in tre o quattro.

Sfilo dal pacchetto una delle mie Lucky e l’accendo. Da che parte sono venuti? Da tutte le parti, penso. Poi lo hanno lasciato a terra davanti a questa casa. Passo in rassegna le targhette al citofono e mi segno i nomi.

“La notte scorsa ha ripreso brevemente coscienza,” mi riferisce un medico che dimostra diciassette anni scarsi. “Ha parlato con l’infermiera della notte.”

“Che cosa ha detto?” domando.

“Ha detto: ‘Si prende il posto di tutto ciò che ami’.”

“Come?”

“Si prende il posto di tutto ciò che ami.”

“Nient’altro?”

“Nient’altro.”

Il medico ragazzino è in piedi accanto al letto del paziente e lo guarda con le mani nelle tasche dei pantaloni. Il camice bianco abbondante gli cade giù appeso, lui lo indossa come un trench.

Mi siedo accanto all’uomo allettato e lo osservo. Fra i suoi occhi è comparsa una ruga di rabbia che ieri ancora non c’era. Adesso ha un’aria tutt’altro che serena, sembra quasi pericoloso.

“Come sta?” chiedo.

“Lo attende una lunga riabilitazione,” spiega il medico. “Non è più giovanissimo e con tutte quelle fratture… Ci metterà un po’ prima di tornare a camminare.”

“Intendo dire, come sta adesso?”

“L’organismo ha superato molto bene lo shock iniziale. Funziona tutto a dovere, possiamo iniziare a ridurre i sedativi.”

“Però gli antidolorifici continuate a darglieli…”

“Ovviamente,” annuisce il diciassettenne.

Corruga le sopracciglia e mi guarda. I suoi occhi dicono: Pensa forse che sia un cretino?

Gli do cinque biglietti da visita.

“Li attacchi in sala infermieri e su tutti gli specchi del bagno. Quando si sveglia desidero essere chiamata subito. Anche di notte.”

I miei occhi dicono: Altrimenti sono guai, sbarbatello.

Il medico ha capito l’antifona e si congeda in silenzio, con piglio formale. Non fosse molto più giovane perfino di Sberla, ci andrei a bere una birra.

Con lo sguardo seguo ancora per un attimo il baby-medico al di là della porta chiusa, quindi prendo la mano dell’uomo che ho il compito di proteggere. Calda e asciutta. Nessun cambiamento.

Ce ne stiamo a lungo così, mentre fuori qualcuno suona una musica sbilenca, il tardo inverno forse, o la primavera precoce, o semplicemente il Nord. Davanti alle finestre di un ospedale il vento produce un suono diverso da, che so, una raffica che spazza la strada davanti a un cinema o a un caffè. Che è un rumore naturale e sempre di gran conforto. Al massimo ti sollevi un po’ il bavero e ti stringi nelle spalle, sospiri, ma nel complesso è una sensazione piacevole e sei felice di essere lì dove sei. Davanti alle finestre di un ospedale, invece, il vento mette malinconia. Pur sapendo che l’aria là fuori ti frusterebbe la faccia e che sei troppo debole per questo, del resto altrimenti non saresti lì dentro, non hai desiderio più grande che uscire all’aperto e gettarti nel vortice.

D’un tratto l’uomo fa due respiri profondi. Espirando contrae il viso. Qualcosa mi dice che domattina sarà sveglio. Prendo un bicchiere dal davanzale della finestra, me lo porto davanti alla bocca. “Io sono tuo padre, Luke,” scandisco piano con una specie di rantolo.

Classico caso di comportamento dissociato.

Quando lascio l’ospedale anche il giorno ha finito il suo turno. Un sospiro profondo cala sulla città. I lampioni adesso hanno tutte le ragioni di essere accesi e anche l’asfalto si rilassa. Procedo lungo l’Alster e i canali che mi conducono al porto. Camminare accanto all’acqua mi sembra sempre più naturale che imboccare una strada. L’acqua si muove assieme a me, mi porta avanti.

E porta un po’ d’ordine nello scompiglio che ho in testa.

Le vetrate del caffè di Carla sono appannate, i lampadari e le candele accesi. Il locale è come un eterno albero di Natale, che instancabilmente illumina con i suoi riflessi il cemento fuori dalle finestre. La porta si apre, escono due uomini con cappelli di lana che mi rivolgono un cenno di saluto. Io mi lascio attrarre dal calore.

Carla, con i tacchi alti, si aggira fra i tavoli e serve portate fumanti. Indossa un vestito nero attillato, il décolleté profondo come il bacino del porto, i lunghi riccioli neri che le ricadono sulle spalle. Mi strizza l’occhio e mi manda un bacio da un capo all’altro della sala. Rocco è nell’angusta e ancora improvvisata cucina, subito dietro il bancone. Armeggia con padelle, pentole e piatti, e i suoi capelli scombinati accompagnano i movimenti volteggiando, seguiti da minuscole gocce di sudore. Ne esce qualcosa a metà tra Flashdance e il cuoco del Muppet Show. Non ha il tempo di respirare. Il calore in cucina è insopportabile e da quello spazio troppo stretto si riversa da noi in sala. Il commissario Calabretta è seduto al bancone e beve una birra. Indossa il maglione grigio e i jeans di stamattina. I suoi capelli un tempo neri, ormai grigi, nel corso della giornata si sono ribellati alla pettinatura all’indietro e gli ricadono sulla fronte a ciocche ondulate. Manca solo una sigaretta all’angolo della bocca, una mano al cielo, un colpo d’anca ed ecco Celentano tale e quale. Osservandolo mentre se ne sta lì seduto, noto quanto è dimagrito. Neppure un filo di pancia, niente. Cuore a pezzi, cucina fredda. Poveraccio. Mi pianto accanto a lui e lo guardo. Lui non ricambia. Carla s’infila dietro il bancone, lancia un’occhiata a Calabretta e scrolla le spalle.

“Cara, prendi anche tu una birra? Se vuoi tenere il passo del signore al tuo fianco hai un bel po’ da recuperare.”

“Sì,” dico, “una birra anche per me, grazie,” e poggio una mano sul braccio di Calabretta. “Che facciamo stasera noi due splendori?”

Calabretta gira la testa, mi squadra, uno sguardo carico di niente. Poi si volge nuovamente verso la sua bottiglia di birra mezza piena e, dal modo in cui lo fa, si capisce che al momento per lui le bottiglie sono tutte mezze vuote, non mezze piene. Carla mi serve la birra, scambiamo un brindisi a distanza. Dal frigo ne ha presa una anche per sé, il che significa che manca circa un’ora alla chiusura. Per dimostrare al mio amico italiano quanto so bere in fretta, poggio la mia birra vuota accanto alla sua.

“Pari,” dico.

“Se nel frattempo ne ha bevute tre di nascosto, sì,” risponde.

Rieccolo, il vuoto.

Lascio cadere la testa sul bancone, non fa male neppure un po’. Ritiro su la testa e ce ne restiamo seduti l’uno accanto all’altra in silenzio per altre due birre. La gente ai tavoli inizia a chiedere il conto. Carla intanto comincia ad asciugare i bicchieri.

“Già mangiato?” domando a Calabretta.

Accenna un no con la testa.

Rocco esce dalla cucina e con le mani unte, prima libera la fronte dai capelli, poi se le pulisce con un asciugamano.

Stasera nella vasca da bagno dovrà darci dentro.

“Si può ancora ordinare da mangiare?” domando.

Rocco fa una faccia stanca e stressata.

Da quando lui e Carla hanno trasformato il caffè in un ristorante aperto di giorno, le competenze dei due proprietari e la capacità della cucina sono perennemente sottoposte a dura prova. Però se la cavano e il locale spopola.

“Una cosa semplice, senza piatti,” aggiungo.

“Okay,” concede Rocco e sorride conciliante. Sparisce in cucina, tornando pochi minuti dopo con due panini di tutto rispetto, uno mozzarella e prosciutto, l’altro mozzarella e prezzemolo. Il pane è caldo. Li avvolge in un foglio di carta spessa.

“Grazie,” dico e lascio sul bancone un biglietto da venti per il conto. Io e Calabretta usciamo nella notte, mentre Carla e Rocco si apprestano a mettere fine alla giornata e al caos.

Riley, tocca a lei.

“Quattro passi fanno proprio bene,” borbotta Calabretta.

Tiene le mani infilate nelle tasche della giacca di pelle marrone. Camminiamo lungo la sfavillante Reeperbahn, ma nel freddo lunedì sera il luogo è desolato. Tutto chiuso, non un’anima. Nemmeno i barboni.

A inizio inverno si sono ritirati in angoli meno ventosi della città o nei centri accoglienza, torneranno a fine aprile, inizio maggio.

I nostri stivali risuonano solitari sul selciato.

C’è solo la strada. E sopra le luci colorate.

E sotto il ricordo del fine settimana, quando si è cantato e ballato, ci si è baciati, incitati e presi a pugni, fino al mattino, come avviene su questo palcoscenico da più di cento anni. I luoghi memorizzano simili particolari e li custodiscono.