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Questo libro è un’opera di fantasia. Avvenimenti e personaggi sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone realmente esistenti, vive o morte, è puramente casuale. Riferimenti e accenni a eventi dell’attualità sono voluti e inevitabili, anche laddove vadano a scapito della precisione storica.

Dello stesso Autore:

Il caso Ildegarda

Titolo originale: Der Bastard von Berg

© 2004 Emons Verlag GmbH

Tutti i diritti riservati

Prima edizione italiana: ottobre 2017

Impaginazione: César Satz & Grafik GmbH, Colonia

Elaborazione ebook: CPI Books GmbH, Leck

ISBN: 978-3-96041-308-0

Distribuito da Emons Italia S.r.l.

Via Amedeo Avogadro 62

00146 Roma

www.emonsedizioni.it

Edgar Noske

Il bastardo di Berg

Giallo medievale

Traduzione di Anna Carbone

A mio nonno Karl
A mio padre Alfred
A mio figlio Norman

Personaggi principali

Engelbert – arcivescovo di Colonia, conte di Berg

Martin – il figlio bastardo

Ugolino – cardinale a Roma, maestro di intrighi e trame

Onorio III – papa

Adriano – sicario prezzolato

Eberhard – monaco istitutore di Martin

Heinrich von Limburg – marito di Irmgard, nipote di Engelbert

Friedrich von Isenberg – nipote di Engelbert

Bodo von Bongard – amministratore al castello di Burg

Johanna – figlia di Bodo

Julius von Heyn – proprietario di una fabbrica di candele

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ALTER TURM: vecchia torre

KIRCHE: chiesa

SCHLOSSHOF: cortile del castello

BERGFRIED: torrione

SCHILDMAUER: muro frontale

GRABENTOR: porta sul fossato

PALAS: Palazzo principale

ALTER TORTURM: vecchia torre di guardia

MINISTERIALENWOHNUNGEN: appartamenti riservati ai ministeriali

TOR: porta

In questa occasione, l’autore desidera ringraziare in modo particolare, oltre ai soliti collaboratori,

Tim Karberg,
Birgitt Reitz.

Oh nobile vescovo di Colonia, non abbiate rimorsi!

Avete ben servito il vostro imperatore, e perciò

Si levi in ogni tempo la vostra lode.

E se mai alcuno volesse sminuire il vostro valore,

Allora, o primo tra i prìncipi, non datevi peso.

Fedele consigliere del re, gran maestro,

Voi siete infatti il conforto dell’imperatore, il suo cancelliere,

Cui tre re e undicimila vergini

Affidano il loro tesoro.

Walther von der Vogelweide sull’arcivescovo Engelbert nell’anno 1222

Colui che in vita ho elogiato, della sua morte mi rammarico,

Guai dunque a chi ha ucciso il nobile principe

Di Colonia! Deh, che la terra più non lo sorregga!

Non mi riesce di trovare un martirio acconcio alla sua colpa.

Troppo lieve gli sarebbe una fune appesa a una quercia attorno al collo.

Né già voglio bruciarlo, squartarlo o massacrarlo,

Né con la ruota stritolarlo, o a essa legarlo:

Auspico che ancora vivo trovi la strada per l’inferno.

Walther von der Vogelweide dopo l’assassinio dell’arcivescovo Engelbert nell’anno 1225

Bastardo medio alto tedesco bastart “meticcio” (anche di animali) in medio alto tedesco < fr., fr. ant. bastard “colui che è generato sulla sella” (prov. germ. bast, sella da mulo); originariamente come coll. Bankert (↑’Bank) 1 “figlio nato fuori del matrimonio”; dal medio alto tedesco anche generico, 2 “meticcio”, anche di animali, piante e sostanze, “la via al turpiloquio è sempre breve” (Trü).

Hermann Paul, Deutsches Wörterbuch

PROLOGO

Alle prime luci dell’alba si amarono per la seconda volta. Quindi si strinsero l’uno all’altra a rimirare il sole che sorgeva giallo e luminoso dietro i cipressi.

“Devi davvero partire?”

“Perché me lo chiedi?” rispose lui. “Lo sai bene.”

“Confidavo che ci avresti ripensato.”

“Non è una mia decisione.” Le sfiorò delicatamente le sopracciglia. “Se dipendesse da me, preferirei restare.”

“E se ti rifiutassi?”

“È impossibile. Non è da me.”

“Sei ligio al dovere.”

“Se vuoi metterla così.”

Lei seguì con l’unghia la linea del suo sterno.

“Quando sarai di ritorno?”

“Non lo so. Può essere che questa volta occorra più tempo.”

“Quanto di più?”

“Non lo so davvero. Ti farò una sorpresa.”

“Mi mancherai notte e giorno. Ti amo così tanto!”

“Anch’io ti amo,” le disse, e le asciugò le lacrime con un bacio.

PARTE PRIMA – IL PADRE

Era una gelida notte di gennaio dell’anno 1225 dall’Incarnazione del Signore e nel cielo brillavano le stelle. Durante il giorno era caduta una lieve nevicata, ma il manto non superava un dito di altezza. I pescatori avevano riportato a terra le loro barche, al largo avevano avvistato lastroni di ghiaccio. Quella notte sarebbe certamente costata la vita a innumerevoli senzatetto e cani randagi di Colonia.

Un’iniquità, quella, di cui nel salone di rappresentanza del palazzo arcivescovile nella piazza del duomo non si avvertiva alcun segno. Nel camino, che avrebbe potuto ospitare cinque uomini ritti in piedi, crepitavano ciocchi spessi come travi. A qualche passo di distanza, nella zona in cui il calore si trasformava lentamente in un gradevole tepore, sostavano due uomini con le spalle al fuoco.

Il più anziano aveva le guance incavate, i capelli rossi ed era di carnagione talmente pallida che evitava perfino il sole invernale. Il suo abbigliamento constava di un ricco mantello ricamato, con diversi spacchi che lasciavano intravvedere gli abiti sottostanti; l’orlo era tempestato di gioielli. Sulla testa, come simbolo del suo titolo vescovile, poggiava una mitra riccamente lavorata. Il suo nome era Walter di Carlisle, era inglese ed era stato inviato sul Reno in missione segreta dal suo re, Enrico III.

L’altro uomo lo superava in altezza di una testa buona, era snello ma allo stesso tempo muscoloso. Sebbene fosse abbigliato in maniera assai più semplice – indossava un mantello di lana chiara che gli arrivava ai piedi e nessun copricapo – appariva superiore all’altro per origine e grado, impressione che si doveva a un bel viso virile dai lineamenti invero autoritari. Un viso che sembrava fatto per la posizione da lui ricoperta.

Come Engelbert II era il conte di Berg, e come Engelbert I era l’arcivescovo di Colonia in carica. Era inoltre stato nominato dall’imperatore Friedrich tutore del di lui figlio Heinrich e provisor, governatore imperiale in Germania. Una sovrapposizione di incarichi che faceva di lui l’uomo più potente a nord delle Alpi.

“A Colonia gli inverni sono sempre così spietati?” chiese Walter. “Lungi da me sostenere che in Inghilterra abbiamo un clima migliore, ma perlomeno gli inverni sono più clementi.”

“Così clementi che piove senza posa,” ribatté Engelbert. “E se per una volta non piove, vi ritrovate a muovervi a tentoni in una nebbia densa come zuppa.”

“Oh, vedo che siete informato. O avete già avuto il piacere di visitare la nostra isola senza che ne fossi messo al corrente?”

“Niente affatto, mio caro Walter. Tuttavia, a seconda della missiva che mi portate, ne avrò forse presto l’occasione.”

“In effetti, Engelbert, in effetti. Credo, senza anticiparvi troppo, di potervi già comunicare che la vostra proposta ha incontrato il favore della Corte.”

“Con tutto il rispetto, non mi ero aspettato niente di diverso. A che punto siete, Stephan?”

La domanda di Engelbert era rivolta a un uomo calvo e tarchiato che aveva appena aperto la porta della sala da pranzo. Stephan il muto, come veniva chiamato, in quanto scalco dell’arcivescovo, era responsabile dell’amministrazione del palazzo e, al tempo stesso, aveva il controllo della cucina e della tavola. Non potendo parlare, fece un gesto.

“Venite, Walter, la tavola è pronta,” disse Engelbert accompagnando il suo ospite nella stanza accanto. “Dopo il lungo viaggio avrete certamente fame.”

*

La sala da pranzo altro non era che una copia speculare del salone di rappresentanza. Anche qui era stato acceso il camino, ma il fuoco si era già spento. Il pavimento era di marmo bianco, le pareti intonacate a gesso. L’illuminazione era fornita da torce accese ai due lati della finestra. Una stanza accogliente, in cui li attendeva una tavola riccamente imbandita.

Vi erano salmone cotto, piccioni farciti e arrostiti allo spiedo con cavolo rosso, croccanti cosciotti di montone in salsa di vino rosso e una testa di maiale glassata, il tutto servito su piatti d’argento. Accanto erano disposte ceste di pane e boccali pieni di birra e di vino.

Come posate erano stati approntati coltelli e – una vera novità – forchette a due rebbi. Attrezzi assai pericolosi, con i quali all’ultima visita il vescovo di Magonza – che era solito gesticolare animatamente – aveva rischiato di infilzarsi un occhio. Da allora lo scalco si tratteneva per istruire gli ospiti sul loro corretto utilizzo prima che si apprestassero a desinare.

Diversamente da quanto il suo aspetto smilzo avrebbe lasciato immaginare, Walter di Carlisle mangiava di buon appetito. In breve il fazzoletto di lino che si era annodato al collo per proteggere il mantello riportò le tracce colorate della sequenza di piatti, accompagnati da birra e vino.

Engelbert, di contro, aveva fatto a meno del tovagliolo, eppure i suoi abiti erano rimasti immacolati, ma in quanto sostenitore di una condotta di vita morigerata, era stato assai parco. Un po’ di pesce, un cantuccio di pane, e aveva bevuto solamente acqua. Adesso si era appoggiato comodamente alla spalliera, aveva preso in grembo uno dei numerosi gatti del palazzo e lo accarezzava tra le orecchie.

“Se tra un boccone e l’altro doveste trovare il tempo, Walter, vogliate dirmi come procedono i piani del vostro re a riguardo dello sposalizio della sorella con lo Hohenstaufen.”

Walter mandò giù il boccone con un gran sorso, si asciugò le labbra e ruttò. “Presumo che la vostra domanda si riferisca alla dote da aspettarsi.”

“Debbo sempre constatare che siete un uomo che non cerca inutilmente la porta, se può entrare dalla finestra.”

Un paragone che a Walter piacque. Rise di gusto, mostrando che in bocca gli restavano al più la metà dei denti. Altrettanto in fretta, tuttavia, tornò a farsi serio.

“Prima che io entri nei dettagli, mio stimato Engelbert, vogliate rispondere a una mia domanda, e ciò onde evitare ogni malinteso: mi è stato riferito che alla fine dello scorso anno avete trattato con un emissario dei francesi.”

“Non vedo quale sia la domanda.”

“Allora mi esprimerò così: lo avete fatto o no?”

Sulla tavola il silenzio si posò come una coltre imbottita. Per un po’ non si udì altro rumore che il crepitio del fuoco e le fusa del gatto.

“Ebbene sì, l’ho fatto,” disse infine Engelbert. “Per espresso desiderio dell’imperatore. Mi ha pregato di accompagnare a Toul sulla Mosella suo figlio, il nostro amato ma ancora troppo giovane e inesperto re Heinrich, in qualità di consigliere. Là erano in corso trattative con il re francese per stringere una solida alleanza politica tra la Francia e il Sacro Romano Impero. Ovviamente ho accondisceso a questo desiderio.”

Walter prese il bicchiere, ma non bevve, bensì rimase a osservare il modo in cui le torce si riflettevano nel metallo lucido. Quindi alzò lo sguardo di scatto e fissò Engelbert dritto negli occhi.

“Avevo sperato che questa voce non rispondesse al vero.”

Le sopracciglia di Engelbert si inarcarono. “Mi stupite. Credete davvero che avrei ostacolato i nostri piani?”

“Vogliate mettervi nei miei panni. Come accogliereste una tale notizia?”

Di nuovo la risposta di Engelbert si fece attendere, ma arrivò sonora. “Innanzi tutto avrei più fiducia.”

“Non offendetevi tanto in fretta. Dovete pur ammettere che fa un’impressione spiacevole sapervi impegnato in trattative con i nostri avversari all’indomani del nostro ultimo incontro.”

“Mi deludete, Walter, più ancora del vino dell’ultima annata. E non tanto per la vostra mancanza di fiducia, quanto per la vostra carenza di fiuto politico. Che cosa credete? Avrei forse dovuto rifiutarmi di soddisfare la richiesta dell’imperatore? Avrei dovuto consentire che un altro consigliere accompagnasse il giovane sovrano al posto mio? Soltanto perché ho preso parte ai negoziati ho potuto influenzarli a nostro vantaggio. Un mio rifiuto avrebbe ottenuto il risultato opposto.”

Walter si schiarì la gola. “Ebbene, da come la presentate voi, la cosa appare effettivamente convincente. E posso chiedervi quale risultato... ehm... voi mi comprendete.”

“Le trattative sono ovviamente fallite,” rispose secco Engelbert. “Dietro mio consiglio, il re ha opposto un rifiuto netto. Siete soddisfatto?”

La luce era fioca, ma tuttavia fu evidente che Walter di Carlisle era arrossito violentemente. Poiché su due piedi non gli riuscì di trovare una risposta adeguata, prima di tutto svuotò il bicchiere. Quando non vi rimase più neppure una goccia, lo scalco venne in suo soccorso. Stephan si accostò a Engelbert gesticolando animatamente.

“Un messaggero?” chiese Engelbert.

Stephan annuì.

“Ed è cosa realmente importante?”

Stephan annuì ancora.

“Walter, vogliate scusarmi un momento,” disse Engelbert alzandosi. “Servo, mesci altro vino al nostro ospite.”

*

L’uomo che lo attendeva nel salone era non tanto basso, quanto gobbo. Poiché non era avanti negli anni, a incurvargli la schiena doveva essere stata una malattia. Solamente a fatica riusciva a sollevare la testa quanto bastava per guardare Engelbert.

“Tu sei Hans, il factotum del convento di Dünnwald?”

“S-sissignore, Eccellenza,” balbettò il gobbo. “Chi è curvo come me non ha problemi a estirpare erbacce o raccogliere immondizia o...”

“Riferisci ciò di cui sei stato incaricato. Il mio tempo è prezioso.”

L’uomo intrecciò le mani imbarazzato. “La badessa mi invia, Eccellenza, per pregare umilmente Vostra Eccellenza di recarsi quanto prima al convento. La badessa dice che il tempo stringe.”

“E te ne ha detto la ragione?”

“Sissignore, Eccellenza. La badessa mi prega di comunicarvi che suor Maria non supererà la notte.”

Engelbert si irrigidì. “È stata la stessa sorella Maria a chiedere di me?”

“Oh, Eccellenza, questo non saprei dirlo. Tuttavia la badessa voleva...”

“Molto bene, Hans. Aspettami nel vestibolo.”

Il gobbo se ne andò ed Engelbert chiamò con un cenno Stephan, che aspettava nella penombra accanto alla porta.

“Vammi a prendere la pelliccia, fa’ sellare il mio cavallo migliore e organizza un seguito. Basteranno quattro uomini.”

Stephan fece un gesto interrogativo in direzione della sala da pranzo.

“Occupati di lui,” disse Engelbert. “Servigli da bere e quant’altro possa desiderare.”

Quando Stephan se ne fu andato, Engelbert mormorò: “Digli che sono stato chiamato per una confessione.”

Quindi fissò lo sguardo assente sulle braci del camino.

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Diverse miglia più a sud, nella città santa sul Tevere, per tutto il giorno una pioggia gelida, sospinta da raffiche di vento da nordest, aveva sferzato le strade. Con gli abiti leggeri che si indossavano a sud ci si infradiciava in fretta e la temperatura del corpo cominciava ad abbassarsi. Le migliori premesse per una fastidiosa infreddatura.

Ed era questa anche la ragione per cui Fausto di Lambrusco, monaco del monastero di San Benedetto, tanto corto di gambe quanto in sovrappeso, quella sera sedeva ancora a lavorare allo scrittoio nell’archivio del Palazzo del Laterano.

Già al mattino, andando a Roma – l’abbazia sorgeva a neppure un’ora a piedi al di fuori delle mura, sulla via Latina – il tempo lo aveva strapazzato. Giunto in Laterano, aveva immediatamente provveduto ad asciugarsi e a cambiare tonaca, e a quanto pareva era stato ancora fortunato, ma non avrebbe superato indenne una seconda camminata sotto la pioggia, questo lo sapeva per esperienza.

Aveva pertanto deciso di sfruttare la possibilità di pernottare in Laterano. Ciò era consentito solamente in circostanze eccezionali, per esempio quando una traduzione urgente richiedeva un supplemento di lavoro. Non era quello il caso, ma poiché i suoi superiori non avevano familiarità con l’aramaico, neppure potevano contestargli il contrario.

Per guadagnare il tempo necessario, Fausto aveva messo mano alla traduzione di una nuova lettera dell’evangelista Luca al suo corrispondente Teofilo. Non era un testo oltremodo impegnativo, Luca riferiva in maniera molto estesa le sue esperienze in occasione di un viaggio a Cafarnao di Galilea.

Sembrava trattarsi di una specie di rendiconto, perché già al primo paragrafo Luca ringraziava per il contributo al viaggio. Quindi procedeva per parecchie righe a parlare della tremenda siccità, per lamentarsi subito dopo di un nubifragio cui aveva fatto seguito un’infestazione di zanzare. Quell’uomo davvero non era mai contento.

Fausto gettò un’occhiata alle spalle, verso il fondo della sala. Là erano conservati non soltanto gli scritti più preziosi dell’archivio, per lo più rilegati in tavole rivestite in pelle, alla moda orientale, bensì anche gli esemplari di maggior pregio delle Sacre Scritture, con le loro sopraccoperte in legno decorate in oro e tempestate di gemme. E laggiù si custodivano anche i rotoli in ebraico e aramaico.

Sulle scansie di legno si affollavano come minimo cinquanta contenitori di terracotta a forma di vaso provvisti di coperchio, bottino ancora da vagliare della crociata tra il 1189 e il 1192. Dal petto di Fausto sfuggì un sospiro: confidava davvero che il materiale restante rivestisse maggiore interesse.

Fausto era un tipico oblato, un monaco che non era entrato in monastero di propria volontà, bensì vi era stato costretto dalla famiglia perché diversamente non avrebbe saputo che fare di lui, giacché, fatta eccezione per la sua inclinazione per le lingue, era uomo del tutto inutile. Il suo atteggiamento e il suo rapporto con la Regola erano conseguentemente rilassati.

Era pur vero che vigevano ovunque usi rilassati, ma Fausto spiccava perfino tra i più dissoluti, sicché al momento si preoccupava unicamente della propria salute, perché per il giorno seguente si era accordato per una bella bevuta con gli amici.

Anche l’attività cui si stava dedicando in quel momento per procurarsi un po’ di distrazione non era decisamente in linea con la Regola. Agguantata la tonaca, aveva cominciato a trastullarsi i genitali. In quell’atto era già stato sorpreso due volte e si era dovuto presentare al cospetto di Antonio Calabrese, il direttore dell’archivio pontificio. Le punizioni erano state relativamente miti – ambedue le volte cento Paternoster – ma Calabrese lo aveva minacciato che alla prossima trasgressione ne avrebbe fatto parola con l’abate di San Benedetto. Ed era ben chiaro che cosa ciò significasse: una settimana senza uscite e senza vino a tavola, e per sovrappiù servizio alle latrine. Se solo pensava al tanfo della cloaca, Fausto sentiva già la nausea.

D’altro canto, il pericolo di essere scoperto aumentava considerevolmente il piacere. Pertanto, mentre attaccava la nuova riga di testo, assiso sulla sua panca ricadde in un ritmo inequivocabile.

Sentiva già stillare le prime gocce quando si fermò di botto, come colpito da un fulmine. Che cosa scriveva Luca? A chi aveva fatto visita? Fausto rilesse il passo.

L’evangelista doveva essersi sbagliato. Oppure quando aveva scritto quelle righe era ebbro. Oppure mentiva semplicemente al suo benefattore per darsi importanza e ottenere più soldi o un nuovo incarico.

Doveva senz’altro essere così, perché quello che Luca aveva scritto era semplicemente impossibile, era in netto contrasto con le conoscenze universalmente condivise e con la dottrina corrente. Più ancora: era blasfemia, e in quanto tale punibile.

Punto. Fine della discussione.

Ma anche se era impossibile, così era scritto. Chiaro. Per quanto Fausto leggesse e rileggesse, non cambiava. Senza contare che Luca era noto per essere, tra gli evangelisti, quello che aveva compiuto ricerche più accurate. E i dati da lui presentati sino a quel momento avevano sempre retto a ogni verifica. Perché avrebbe dovuto sbagliarsi proprio a quel riguardo?

Fausto fu investito da ondate alternativamente di caldo e di gelo, e nella sua testa cominciò a ruotare tutto come se avesse svuotato da solo una botticella di vino. Perché se era realmente così, che cosa significava quello che aveva sotto gli occhi? Se Luca non si era sbagliato e non aveva bevuto o mentito? Se quello che aveva scritto era semplicemente la verità e nient’altro che la verità?

In tal caso Fausto aveva tra le mani, senza dubbio alcuno, uno scritto il cui contenuto poteva scuotere la Chiesa cristiana sin nelle fondamenta. Se non peggio. Quando se ne rese conto, lasciò cadere il rotolo come se a un tratto avesse preso fuoco.

Da qualsiasi lato guardasse la cosa, non poteva esimersi dal parlarne con il superiore. O doveva forse scavalcarlo e rivolgersi direttamente al cardinale? In fondo, quanto aveva scoperto era sufficientemente importante.

E all’improvviso sulla faccia di Fausto fece capolino un sorriso scaltro. Se fosse riuscito a giocarsela bene, da quella storia avrebbe potuto ricavare un bel guadagno.

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Il gruppo doveva ringraziare i cavalli se era potuto procedere tanto speditamente. Era affascinante vedere con quale sicurezza quegli animali trovavano il passo sulle strade dal fondo duro e piene di pozzanghere ghiacciate. E questo nel buio più fitto, perché nel frattempo il vento da nordest aveva coperto le stelle con una coltre di nuvoloni neri. L’unica luce arrivava ormai dai due tedofori che cavalcavano alla loro testa. Non passarono tuttavia due ore prima che davanti a Engelbert e ai suoi accompagnatori comparissero le mura di cinta del convento di Dünnwald.

Il batacchio della campana alla porta aveva appena fatto un rintocco quando la badessa in persona venne ad aprire. Era una donna debilitata e senza denti, con occhi sconsolati, che aveva superato da un pezzo la cinquantina. Alla vista dell’arcivescovo si inginocchiò, gli prese la mano e gli baciò l’anello.

“Il Signore vi benedica, Eccellenza.”

“Alzatevi, sorella in Cristo.” Engelbert l’aiutò. “Spero di essere giunto ancora in tempo.”

“Sì, sia lode al Signore, Eccellenza. Sorella Maria non è ancora stata chiamata in cielo. Vi prego, seguitemi.”

Dünnwald, un monastero dell’ordine dei premostratensi, dipendenza di Steinfeld in der Eifel, era piccolo, non vi vivevano neppure venti monache. Ed era una comunità povera. Per quanto le sorelle si ammazzassero di lavoro per ottenere raccolti sufficienti, i loro approvvigionamenti erano sempre tirati, e la loro vita ne soffriva di conseguenza.

Mentre il seguito restava indietro, Engelbert andava appresso alla superiora lungo una serie di corridoi umidi e freddi, illuminati lo stretto indispensabile da candele di sego. Di sicuro la madre aveva scelto un percorso più tortuoso affinché le consorelle non lo vedessero in viso.

Passarono davanti ad alcune porte massicce che la badessa dovette aprire e poi richiudere alle loro spalle, quindi attraversarono un piccolo cortile e varcarono un’ulteriore porta, questa volta aperta, per ritrovarsi infine in medicheria.

La stanza era misera e fredda come il resto del monastero. Il pavimento era di argilla battuta con ciottoli, entrambi del Mutzbach, che scorreva proprio dietro il monastero. I muri, costituiti da uno zoccolo di pietra e da un traliccio intonacato, presentavano qua e là dei buchi attraverso i quali soffiava il vento. Chi in quella stanza voleva riguadagnare la salute, doveva avere una gran fede.

Alla parete, poco distanti tra loro, erano accostate tre brande con un pagliericcio. Le prime due erano libere, sulla terza giaceva Maria. Al suo fianco sedeva una consorella, che a un segno della madre si allontanò silenziosamente e a capo chino.

Solo allora Engelbert riuscì a vedere bene Maria. Era talmente smagrita che il prelato ne ebbe spavento. Tremendamente magra e molto pallida, quasi bianca. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che si erano visti? Engelbert dovette fare il calcolo: erano trascorsi ben diciassette anni.

Anche un profano avrebbe inteso quanto era prossima alla morte. Sopra le guance incavate gli occhi apparivano innaturalmente grandi, le labbra erano sottilissime e avevano un colorito bluastro. Il respiro era frammentato, scuoteva il capo e sopra la coperta si agitavano le mani giunte che sembravano fatte di pelle tirata sopra le ossa. Sebbene la temperatura superasse di poco il punto di congelamento, aveva il viso imperlato di sudore.

La superiora prese una pezza, si chinò e tamponò la fronte della malata mormorando qualche verso in latino. Maria si tranquillizzò all’istante.

Quindi la superiora disse ad alta voce: “Sua Eccellenza l’arcivescovo è qui, Maria.”

Maria girò lentamente la testa verso Engelbert. Per un attimo parve confusa, ma poi sorrise.

“Lasciateci soli.” Engelbert si sedette e prese la mano di Maria. Era fredda.

La badessa si chinò su di lui. “Non farei meglio...”

“Andate.”

Quando la porta si fu richiusa, i due rimasero a guardarsi per un po’ senza parlare. Ciascuno cercava di leggere negli occhi dell’altro, ma diciassette anni erano un tempo molto lungo.

“Come stai, Maria?”

Maria sorrise di nuovo. “Non vi hanno detto che sto morendo, Eccellenza? Lascerò presto questa valle di lacrime. Sono al termine del mio cammino terreno.”

“Lasciamo perdere le formalità, Maria. Siamo soli. Non vi è dunque alcuna speranza di guarigione?”

La monaca scosse il capo. “Ma non affliggerti per questo. Io sono libera da ogni timore.” E a bassa voce aggiunse: “Ora che tu sei qui.”

“Ti somministrerò i sacramenti.”

“Dopo. Prima devi ascoltarmi. Ti devo dire una cosa importante.”

“Maria, i sacramenti...”

“Engelbert!” lo interruppe, e nella mano il vescovo sentì la stretta forte delle dita di lei. “Perdonami, ma temo che il tempo che mi rimane non sia sufficiente. Anzi, ho resistito finora solo perché sapevo che saresti venuto.”

Come a dimostrazione di quanto diceva, fu colta da un accesso di tosse. Il suo corpo si contrasse come per una colica e sulle labbra affiorò una schiuma rossa di sangue. Engelbert le asciugò la bocca e il mento. Quando infine poté tornare a parlare, sembrava ancora più stanca e fiacca di prima.

“Dammi da bere, per favore. Là sul tavolo, la brocca.”

Engelbert la versò e le avvicinò il bicchiere alla bocca. Buona parte dell’acqua le corse giù per le labbra tremanti. Quindi la monaca rimase in silenzio e riposò con gli occhi chiusi.

A un tratto, senza riaprirli, disse: “Ti ricordi la giostra di Neuss, dove ci siamo conosciuti? Era l’anno del Signore 1207, verso la fine dell’estate. Le foglie cominciavano già a tingersi di rosso.”

“Vagamente.” Engelbert dovette schiarirsi la gola. “È passata un’eternità.”

“L’anno seguente ci siamo rivisti a Colonia.”

“Giusto,” confermò Engelbert, con un nuovo colpo di tosse. “Com’eravamo giovani, allora!”

“Perlomeno io,” disse lei riaprendo gli occhi. “In fondo tu avevi già ventidue anni ed eri un uomo navigato, io di anni ne avevo soltanto quindici. Il brigante e la fanciulla. Mio Dio, mi sono innamorata perdutamente di te già al nostro primo incontro a Neuss. Per tutto l’inverno non sono riuscita a pensare ad altro che a rivederti al più presto. Quando poi ci siamo rivisti in primavera, ero definitivamente tua. Se mi avessi chiesto di venire con te sino alla fine del mondo, ti avrei seguito senza esitare.”

“Non ti ho mai chiesto niente di simile, Maria.”

“No, certo che no. Quello che voglio dire è che tutto ciò che è successo quell’anno è stato per mia volontà. Quello che ho fatto, l’ho fatto di buon grado. Non devi pensare che mi sia sentita in qualche modo costretta. Capisci quello che ti sto dicendo?”

“Credo di sì. Hai agito per amore.”

“Non era ciò che provavi anche tu?”

Il groppo che Engelbert aveva in gola era decisamente ostinato. Si schiarì la voce con tanta forza che rischiò di staccare l’intonaco dalle pareti. “Di sicuro ti ho desiderata, Maria. Altrimenti... ecco... non avrei certo... ehm...”

“Un così bell’uomo, e così impacciato in queste cose,” disse Maria, e a un tratto sembrò essere di nuovo la giovanetta di allora. “Non sei cambiato.”

“Sono tenuto alla castità, Maria.”

“Lo eri anche allora.”

“Con la differenza che quando ci siamo conosciuti, ero scomunicato. Ero nel fiore degli anni e mi riusciva ancora difficile tenere a freno i desideri della carne. Ho imparato a dominarmi solo con l’andare degli anni.”

“Sono contenta che allora fossi così privo di controllo. Altrimenti non avrei dei ricordi tanto cari.”

“Maria, ti prego! Non è davvero l’argomento più adatto in questo momento. Presto sarai faccia a faccia con nostro Signore. Questo è il momento di pentirsi e di chiedere perdono. Non so davvero perché hai toccato questo tasto.”

I lineamenti di Maria si fecero improvvisamente morbidi, gli occhi brillarono di una luce nuova che non era dovuta alla febbre. Per un attimo fu come se avesse ritrovato la bellezza di un tempo. Ma era solo un’illusione, come quella di vivere per sempre.

“Davvero non lo immagini?”

Lo sguardo di Engelbert manifestava solo smarrimento. L’unica cosa che gli veniva in mente era inimmaginabile. Maria parve intuire quello che pensava e gli fece un cenno di incoraggiamento.

“Significa forse...?” chiese l’arcivescovo, e a vederlo sembrava che gli fosse appena caduta una tegola sul capo.

Maria annuì e gli prese una mano tra le sue. Poi se la portò alle labbra, la baciò e se l’adagiò sul petto.

“L’ho chiamato Martin, come il mio defunto fratello. Non ho osato dargli il tuo nome, però ti assomiglia moltissimo. Non tanto esteriormente, ma avete la stessa natura.”

Engelbert scosse il capo sbigottito. “Non posso crederci. Perché lo apprendo solamente ora? Perché non mi hai mai detto niente a questo proposito? Dov’è? Che cosa fa?”

Maria voleva rispondere, ma un nuovo attacco glielo impedì. Il suo corpo fragile era scosso e lei in preda al panico boccheggiava in cerca d’aria. Engelbert l’aiutò a mettersi a sedere. Sputò altro catarro misto a sangue. Quando l’attacco fu passato, sprofondò nuovamente nel letto, madida di sudore. Engelbert le asciugò la fronte. Questa volta ci volle più tempo prima che fosse nuovamente in condizione di parlare.

“Non saremmo mai potuti stare insieme.” Maria parlava così sommessamente che Engelbert dovette avvicinarle l’orecchio alla bocca per comprenderla. “Non avremmo mai potuto essere una vera famiglia. Per noi questa speranza non c’era. Quando sono rimasta incinta, avevi già consacrato la tua vita al Signore. Non potevo trattenerti.”

Quelle poche frasi l’avevano fiaccata a tal punto che dovette riposarsi. Il suo respiro era così lieve che il petto non si muoveva quasi. Le sue forze non sarebbero durate a lungo.

“Lui... Martin... sa chi è suo padre?” indagò cauto Engelbert.

Maria negò con un cenno del capo. “Non lo ha mai saputo.” La sua voce si era ridotta a un soffio.

“E dove si trova adesso?”

“L’ho affidato a una persona quando aveva due anni e sono entrata nell’ordine. Vive con...”

Il corpo di Maria si contorse in un nuovo attacco violento. Era troppo spossata per tossire, ansimava e si strozzava in modo pietoso. Questa volta non le giovò neppure che Engelbert l’aiutasse a mettersi a sedere.

Poiché minacciava di ricadere, la trattenne per le spalle. E così furono le mani dell’arcivescovo ad avvertire per prime che stava morendo. Fu come se sotto la sua presa si dissolvesse. La sua vita gli scivolò dalle dita.

“Maria!”

L’attirò a sé e l’abbracciò, ma per quanto la stringesse, non poté trattenerla. Gli rimase solo l’involucro del corpo, abbandonato dall’anima.

La lasciò andare solo dopo molto tempo, le chiuse gli occhi e le impartì l’estrema unzione. Solo allora chiamò la badessa, la quale si informò se prima di chiudere gli occhi per sempre avesse ricevuto i sacramenti.

“Sì,” mentì lui senza un attimo di esitazione. “Morendo mi ha pregato di accogliere suo figlio presso di me. Si chiama Martin. Voi sapete dove posso trovarlo?”

Dal viso della badessa fu evidente che sapeva anche di più, ma a Engelbert disse soltanto dove si trovava il ragazzo e come raggiungerlo.

Quell’ultima informazione era superflua: Engelbert conosceva la strada.

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Altolà!” Il grido sonoro dal buio dietro la colonna fu così improvviso che a Fausto prese quasi un colpo.

Inciampò e perse il rotolo che aveva in mano. Lo stava raccogliendo quando davanti a sé vide un altissimo esponente della guardia pontificia.

“Ma sei impazzito, a spaventarmi così?” sibilò il monaco. “Ho rischiato di rompermi il collo.”

“Non fare tanto il gradasso, amico. E comunque, la salute del tuo collo sarà davvero in serio pericolo se non mi dici subito che cosa stai facendo qui.”

“E a te che cosa interessa, sentinella? Sono qui per una missione importante. Lasciami passare.”

Con un movimento più lesto dell’occhio, la guardia sfoderò lo spadino e puntò la lama alla gola di Fausto. “Ti conosco. Sei uno di quei topi di biblioteca. Non ti chiami Ferculo o qualcosa del genere?”

“Fausto,” squittì il monaco. “Accidenti a te, ma che ti prende? Vuoi infilzarmi?”

“Ah, ecco che il topolino si mette a imprecare. Il tuo abate non ti ha insegnato che se non la smetti finirai arrostito all’inferno come una costoletta di maiale? E adesso, dimmi finalmente: che cosa sei venuto a fare in quest’ala del palazzo?”

“Devo conferire con Sua Eminenza il cardinal Ugolino. E subito.”

“Ah, il cardinale, capisco. E Sua Eminenza ti aspetta?”

“No, ma ho da fargli una comunicazione della massima importanza.”

“Allora mi rincresce, ma non è possibile, caro il mio amico. Puoi pure andartene e tornare nella tua cantina. Se vuoi parlare con il cardinale, abbi la cortesia di attenerti ai consueti orari di ricevimento.”

Fausto tese il rotolo alla guardia. “Ecco, leggi tu stesso. E se dopo aver letto crederai ancora che la circostanza non sia urgente, allora me ne andrò. Però se il tuo ritardo cagionerà una catastrofe, la responsabilità sarà tua.”

La tattica di Fausto ebbe successo. Ovviamente la guardia non conosceva l’aramaico, ammesso che pure sapesse leggere. Fissò i simboli sconosciuti del rotolo tenendolo a rovescio, sempre più perplesso.

“E allora, che cos’hai deciso?” gli chiese Fausto pestando il piede con impazienza.

“Questa è una lingua che non comprendo. Che cosa c’è scritto?”

Con l’espressione di chi cerca di impedire la più grande cospirazione dai tempi dell’assassinio di Cesare, Fausto sussurrò: “Sulla base di questo scritto il cardinale può sradicare l’eretico più pericoloso che sia mai esistito. Solamente... bisogna agire in fretta.”

La parola “eretico” produsse il suo effetto funesto. Non fosse mai che un eccesso di zelo impedisse di catturare un nemico della Chiesa, peggio ancora se estremamente pericoloso: la guardia non intendeva assumersi un rischio siffatto. Restituì il rotolo a Fausto.

“Spero per te che quanto dici risponda al vero. Qualora avessi mentito, terrai compagnia ai ratti nelle segrete. Va’ pure e annunciati al custode della segreteria del cardinale. Lui saprà che cosa fare.”

Col mento in fuori per il trionfo, Fausto proseguì il suo cammino. Aveva già fatto dieci passi quando un nuovo “Altolà!” lo raggelò. Si voltò seccato.

“Che c’è ancora?”

Con un sogghigno la guardia indicò le parti basse di Fausto. “Prima di presentarti al cospetto di Sua Eminenza, faresti forse meglio ad abbassarti la tonaca. A meno che tu non voglia che si pieghi in due dalle risate nel vedere i tuoi miseri gioielli.”

Fausto si rassettò gli abiti con il capo in fiamme per la vergogna, snocciolando una sfilza di promesse da marinaio: non avrebbe mai più detto il falso, non avrebbe mai più toccato alcol, non avrebbe mai più armeggiato sotto la tonaca durante il servizio, non...

*

Nello stesso momento Ugolino conte di Segni, cardinale arcivescovo di Ostia e intimo e influente consigliere di papa Onorio III, disteso in posizione prona sul suo sedile prediletto, un podio rivestito di innumerevoli tappeti e cuscini, cercava di rilassarsi dopo una giornata faticosa.

Al suo fianco erano accucciati i suoi due valletti, due orientali dalla carnagione olivastra. Uno suonava il flauto, una melodia solenne che incuteva sonnolenza, mentre l’altro massaggiava con mani esperte il collo e le spalle del cardinale. Percorso da piacevoli brividi, Ugolino era prossimo ad appisolarsi quando entrò nella stanza il suo domestico personale che, inginocchiandosi a lato del podio, sussurrò qualcosa all’orecchio del suo padrone.

“Congedalo,” brontolò Ugolino senza aprire gli occhi.

“Il giovanotto si comporta in modo assai sfacciato,” rispose il domestico. “Potrebbe significare che ha davvero qualcosa di importante da riferire.”

“E chi decide qui che cosa è importante?”

“Voi, naturalmente. Però dovete ammettere che di rado le mie impressioni sono fuorviate.”

“Purtroppo è vero,” sospirò Ugolino. “Di’ a questo... ripetimi il suo nome?”

“Fausto.”

“Di’ a questo Fausto che se quanto ha da dire si dimostrasse un’inezia, verificherò se è capace di camminare sulle acque. Con una macina al collo. Se insiste comunque per essere ricevuto da me, lascialo entrare.”

“La vostra decisione dimostra come di consueto la massima saggezza.”

“Sparisci, viscidone!”

*

Fausto conosceva il cardinale di vista. Una volta aveva assistito a una messa celebrata da Sua Eminenza a Santa Maria Maggiore, in un’altra circostanza lo aveva veduto in occasione di una processione su via Flaminia. Sapeva pertanto che Ugolino era alto e magro, che aveva occhi neri che incutevano timore e un naso alla Cesare. E conosceva la sua voce stranamente gracchiante, che – soprattutto quando si alzava di volume – ti trafiggeva le budella come una lama.

Non proprio un incontro gradevole, quello che si prospettava per lui; tuttavia, sapendo che cosa lo attendeva, si sentiva moderatamente rilassato. E a ogni modo, non aveva preso davvero sul serio la sciocca minaccia della macina.

Entrò dunque nella sala a passo spedito... e all’istante la sua sicurezza svanì, come sottratta sulla soglia da un borsaiolo. Tutto a un tratto aveva le ginocchia deboli, l’intestino rumoreggiava e la fronte era imperlata di sudore freddo.

Era infatti cosa assai diversa vedere il secondo uomo più potente della Chiesa da lontano e al riparo tra la folla e stargli davanti faccia a faccia. E a questo si aggiungeva sfarzo sfrenato della stanza, che a Fausto procurò un vero choc.

Marmo, ebano, avorio, oro, argento e pietre preziose ovunque si volgesse lo sguardo. Perfino la gabbia dei colombacci era d’oro puro, e sulla punta vi era incastonato un rubino. E poi gli aromi: ovunque erano sparse ciotole di erbe e incenso che spandevano profumi stordenti. Era più o meno così che Fausto immaginava il paradiso, con l’eccezione dei due valletti: lui ne avrebbe preferiti di sesso femminile.

A uno schiocco di dita del cardinale i due uomini si allontanarono e sparirono dietro una tenda viola. L’alto prelato si alzò, lasciò il podio e venne verso Fausto, il quale si gettò a terra pronunciando le consuete frasi fatte con cui professava la propria indegnità. Ugolino tuttavia non si fermò: passò oltre e andò a prendere posto su uno scanno dalla spalliera alta a molti passi di distanza, nei pressi della finestra.

Fausto imprecò sommessamente, comprendendo di essersi steso in posizione orizzontale anzitempo e nel posto sbagliato. Neppure però osava rialzarsi senza essere invitato a farlo, per tema di essere accusato di disobbedienza. Strisciò pertanto dietro al cardinale, accompagnato dalle risatine dei valletti, che osservavano la scena da dietro la tenda.

“Fai il cagnolino o che cosa?” gli domandò in un tono molto brusco Ugolino.

“Certo che no, Eminenza.”

“E allora alzati!”

“Subito, Eminenza.”

Mentre Fausto si tirava su, Ugolino gracchiò: “Mi è stato riferito che nel corso delle tue traduzioni hai fatto una scoperta di rilievo.”

“È così, Eminenza,” ansimò Fausto. “Di rilievo e assai scottante.”

Ugolino inarcò un sopracciglio. “E ti ritieni all’altezza di un tale giudizio?”

“In questo caso... credo di sì, Eminenza.”

“Ed è questa la ragione per cui hai ritenuto di scavalcare il tuo diretto superiore, di ignorare la procedura consueta, e di rivolgerti immediatamente a me?”

“Sissignore, Eminenza, è così.”

“Per quanto tu debba ben sapere che detesto come il purgatorio essere disturbato a tarda ora?”

“Vi chiedo umilmente perdono, Eminenza, ma...”

“Ti hanno detto perlomeno quale destino ti aspetta qualora la cosa dovesse rivelarsi un’inezia?”

Fausto deglutì tanto che attraverso le molteplici pieghe di grasso del suo doppio mento si intravvedeva il pomo d’Adamo sul punto di scoppiare. “Assai bene, Eminenza. Con estrema chiarezza.”

Ugolino stese la mano. “Allora passami il rotolo.”

Fausto si accinse a farlo, ma all’ultimo momento lo ritrasse. “Perdonatemi, Eminenza. Lo scritto è redatto in lingua aramaica. Se me lo consentite, ve lo...”

Il resto della frase gli rimase bloccato in gola. Sotto lo sguardo di Ugolino avvertì una sorta di paralisi.

“Ma per chi mi prendi, misero verme?” lo rimbrottò Ugolino con una voce calda come una notte di dicembre sull’Aventino. “Credi forse, tu piccola e grassa nullità di un monaco borioso, di essere il solo a comprendere l’aramaico?”

Fausto avrebbe voluto rispondere, ma riuscì solo a produrre il rumore che fa un caprone quando gli tagliano la gola. Quindi fece un passo avanti e mise il rotolo nella mano del cardinale.

Quegli lo svolse e scorse il testo con lo sguardo rapido di un lettore esperto. Dalla sua espressione non vi era modo di sapere se il contenuto fosse di suo interesse o lo annoiasse. E così rimase quando giunse al punto che in Fausto aveva fatto suonare un campanello d’allarme.

Più il cardinale si manteneva indifferente, più Fausto si sentiva prendere dal panico. Non per la prima volta da quando aveva messo piede nelle stanze di Sua Eminenza si maledisse per non avere semplicemente lasciato stare la cosa. Si era aspettato riconoscimento e una ricompensa, ma adesso si sarebbe accontentato di avere salva la vita. Lente ma inarrestabili le ginocchia gli cedettero come se avesse già la macina al collo.

“Chi sa di questa lettera a parte te?”

La domanda arrivò talmente di sorpresa che Fausto sussultò e dovette prima racimolare in bocca un po’ di saliva. “N-nessuno, Eminenza.”

“Davvero nessuno?”

“Davvero, Eminenza. Lo giuro su tutto ciò che ho di più caro.”

“Che in ogni caso non sarà molto,” commentò freddo Ugolino. “Però sia, voglio crederti. E questa è la prima lettera di Luca che hai tradotto?”

“È già la terza.”

“Erano tutte indirizzate allo stesso destinatario?”

“Sì, tutte, nessuna eccezione.”

“E questa persona di cui si parla era già stata citata anche nelle altre lettere?”

“No. No, altrimenti sarei venuto da voi prima.”

“Ne sei sicuro?”

“Sì, nel modo più assoluto.”

“Quante lettere di Luca sono ancora conservate in archivio?”

“Non lo so. Forse nessuna, forse diverse. Vi sono ancora molti contenitori da aprire.”

“Controllali. Tutti. Voglio sapere se questo nome viene citato altre volte.”

“La cosa però mi richiederà un certo tempo.”

“Nessuno ti mette fretta, Fausto, credo però che per domani sera dovresti essere in grado di farmi un rapporto.”

“Già domani? Ma come potete chiedermelo, Eminenza? Io...”

“So di poter contare su di te,” lo interruppe Ugolino, che poi si alzò e accompagnò l’oblato alla porta. “Ah, e sarà meglio che concordiamo un nome in codice per riferirci a questa faccenda. Hai qualche suggerimento?”

“Un nome in codice? Non lo so. Che ne dite di Samuele?”

“Zuccone! Non il suo vero nome! No, no, dev’essere qualcosa di diverso... Ci sono. Il nome in codice sarà Bastardo.” Ugolino se lo fece rotolare sulla lingua. “B-a-s-t-a-r-d-o. È ottimo, non trovi anche tu?”

“Naturalmente, Eminenza. Bastardo. Certo, Eminenza. Ottimo.”

“E non dimenticare: farai rapporto solamente a me e manterrai il più assoluto riserbo con chiunque altro. Ricordati sempre: i nemici della Chiesa sono in agguato ovunque.”

“Certamente, Eminenza. Naturalmente. Nessuna domanda. Solamente a voi. Altrimenti riserbo.”

Con mille salamelecchi, Fausto arretrò sino alla porta. Quando la richiuse, il domestico personale era già al fianco di Ugolino.

“Consegnalo al segretario e digli di custodirlo nel suo stipo segreto,” disse il cardinale mettendo il rotolo nelle mani del servitore. “E poi fa’ venire Adriano, ho un incarico da affidargli.”

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Sui prati in cui l’Eifgenbach sfocia nella Dhünn gravava una nebbia fitta. Il tramestio degli zoccoli dei cavalli si avvertiva ben prima che fosse possibile riconoscere animali e cavalieri. Solo quando si furono avvicinati a venti passi le loro sagome si stagliarono nella foschia.

Erano ancora solamente in tre. Sebbene tutto il gruppo avesse pernottato alla locanda di Walkmühle a Dünnwald, al mattino Engelbert aveva inviato due uomini del suo seguito a Colonia e al castello di Burg con delle missive, per cui adesso ad accompagnarlo erano solamente Gumpert di Eller e Thietmar von Hummelsheim, che annoverava tra i suoi compagni più fidati e di antica data.

Gumpert era un uomo mingherlino con occhi vispi e lineamenti delicati che sovente lo facevano passare per un amante della lettura o comunque di una qualche attività della mente, addirittura per un rammollito, un errore che alcuni dei suoi avversari avevano dovuto rimpiangere amaramente.

Nel caso di Thietmar, per contro, l’aspetto era perfettamente adeguato all’incarico che ricopriva: era un uomo tarchiato e aveva un viso che quasi non si riusciva a intravvedere sotto le numerose cicatrici.

I tre avevano superato il monastero di Altenberg senza fermarsi, sebbene Engelbert si fosse baloccato brevemente con l’idea di impetrare la salvezza dell’anima di Maria nella cappella di San Martino. Tuttavia, adempiere alla promessa che le aveva fatto gli apparve poi più urgente e così adesso il drappello puntava verso nord e risaliva la valle dell’Eifgenbach con l’arcivescovo alla testa.

Qui il bassopiano si restringeva e il bosco arrivava fin quasi alla riva. La nebbia era sempre più impenetrabile. Avevano percorso meno di un miglio quando Gumpert raggiunse Engelbert.

“Vi attendevo al mio fianco già prima,” disse l’arcivescovo. “Mancano ormai solo poche centinaia di passi alla vecchia rocca di Eifgenburg.”

“Inorridisco ancora oggi a ripensarci,” rispose Gumpert rabbrividendo. “Non sono certo un codardo, ma quel che è troppo è troppo.”

“E che mi dite di Thietmar? Mi pare assai tranquillo.”

“Per lui è facile, lui non crede agli spettri. Gli increduli sono sempre i più impavidi.”

“Lo spettro porta davvero la testa sotto il braccio?”

Gumpert deglutì a fatica. “La figura era completamente bianca, come ricoperta di farina. Pelle, capelli e abiti. Solo gli occhi brillavano rosso fuoco. Quando mi ha parlato invitandomi a entrare, le labbra della testa spiccata si muovevano.”

“Ma non avete prestato ascolto al suo invito?”

“Per tutti i diavoli no, non l’ho fatto!”

“E allora dalla rocca è uscito un cavaliere nero?”

“No, non era nero, aveva vesti rosso sangue e cavalcava un cavallo nero come la notte. Indossava elmo e armatura, ma non aveva spada. Per la precisione, non era armato, però puzzava di zolfo, e il modo con cui veniva verso di me era così spaventoso che ho fatto dietrofront e sono scappato a gambe levate.”

“E vi ha inseguito?”

“Non lo so, forse. Non mi sono più voltato a guardare.”

“E ditemi, Gumpert, quanti boccali di vino vi eravate scolato quella sera?”

“Oh, comprendo, non mi credete. Ma il Signore mi è testimone. Lo spirito si trovava nel punto in cui un tempo sorgeva il portone della rocca. Là aveva già teso un agguato a mio padre e a mio nonno. Oggi il luogo non si riesce quasi a ritrovare, tanto è tutto in rovina.”

Come a conferma delle sue parole, sulla sinistra fra i tronchi comparvero i resti del bastione circolare che un tempo aveva circondato la rocca difensiva. Della rocca stessa non restava quasi più nulla. Quanto di pietre e travi rimaneva di utilizzabile era stato asportato dai monaci e utilizzato per la costruzione del monastero di Altenberg.

“E anche i vostri antenati furono inseguiti dal cavaliere in vesti rosse?”

Gumpert annuì. “Mio nonno cadde durante la fuga e il suo cavallo si spezzò il collo. Solo a fatica riuscì a trovare riparo nel monastero.”

“Allora si tratta per così dire di uno spettro di famiglia,” commentò Engelbert. “Un incontro con lo spettro che si eredita di padre in figlio. E avete già presentato quell’essere anche a vostro figlio?”

“Non prendetevi gioco di me. Consentitemi di dire che se aveste vissuto la mia stessa esperienza, anche a voi avrebbe preso la strizza al culo.”

A un tratto nelle vicinanze si levò gracchiando in volo uno stormo di cornacchie. Gumpert trasalì e perfino Engelbert non poté negare che quel luogo gli provocava un certo malessere. Senza mettersi d’accordo, entrambi spronarono i cavalli.

Il primo a raggiungere la successiva curva del fiume fu Thietmar.

*