Tribolato Bonomo

Auguste de Villiers de L'Isle-Adam

(Traduttore: Pierangelo Baratono)

Prefazione

Endurer pour durer.

Villiers .

 

Quale santo o qual poeta scioglierà alla Pazienza un inno degno di questa sublime virtù, che accompagna l’uomo di genio nel mio doloroso calvario e lo accomuna col pensoso asinello, così mal conosciuto e misconosciuto dal mondo? Anche nel mistero cristiano, un profondo simbolismo assegna una parte essenziale al ciuco, fedele amico di Colui, che dalla vita dovea ricevere la maggior somma di delusioni e di dolori e dalla morte la maggior luce di gloria. Pazienza, bordone per i passi stanchi, raggio di sole per l’anima ottenebrata, non a torto tu fosti proclamata prerogativa, del più orecchiuto, ma del più disdegnoso fra gli animali, dagli ancor più orecchiuti seguaci della beffa stolida e superficiale! L’assiomatica irritabilità dei poeti, trastullo retorico d’ogni studente di liceo, non è che l’apparenza effimera, sotto la quale si cela, appunto, la pazienza. Ed io so che, salvo poche eccezioni, dovute a capricci della sorte, le creature veramente superiori trangugiano intiera la coppa del fiele prima di sfolgorar dal lor Golgota: io so che Dante dovè, chiusi gli occhi per sempre, attendere che il patrocinio di un Boccaccio gli aprisse la via al trionfo: so che Cervantes dovè veder, vivo, il suo Don Chisciotte interpretato come un libro di amena lettura e, solo dopo morte, sorridere amaro della troppo tarda ammirazione: so che la grande Elisabetta e il buon pubblico londinese doveron considerare Shakespeare come un semplice piacevole istrione, e stupirebbero, oggi, se, tornando al mondo, lo scorgessero circonfuso di gloria. La parodia del «genio incompreso», pur essendo una graziosa burattinata ad uso e consumo degli scrittori mancati, ha profonde radici nella realtà: e gli stentati alberelli dei superuomini in miniatura altro non sono se non gli effimeri segni di una legge eterna.

Ed ecco ancora un uomo di genio, che trascorse inosservato la propria esistenza e oggi, scomparso da anni dal buffo palcoscenico del mondo, si drizza gigante sovra le più alte vette dell’arte: Villiers de l’Isle-Adam.

Nacque, egli, a Saint Brieuc, in Bretagna, il 7 novembre 1838 e, dopo gli splendori e le gioie di un’adolescenza idoleggiata dai famigliari e sorrisa dalle agiatezze, condusse l’umile miserabile vita del suo fratello spirituale: Edgard Poe. Ma, dentro il cuore, custodiva la rifulgente memoria degli avi crociati e, nell’animo, un sogno, che trascendeva ogni realtà. Gli scapigliati caffè parigini videro questo impenitente nottambulo avvicendare le ebbrezze di una sfrenata improvvisazione, in crocchio di amici, con le ebbrezze, oh come tremende! dell’alcool. E gli scrittori mediocri e morigerati storser le labbra sdegnosi: e i cittadini pacifici gridaron l’anatema o volsero altrove gli sguardi. Non sapevan, però, gli uni e gli altri, qual tesoro si celasse in quell’ometto timido e irruente a sbalzi, femmineo a dispetto del pizzo alla moschettiera e dei baffi spavaldi, ingenuo nei chiari occhi azzurri, aspro e doloroso nella piega ironica delle labbra, trasandato nelle vesti, ma nobilmente scrupoloso e accurato in tutto ciò che toccasse la sua maggior amica e nemica: l’arte. La chioma lunga e bionda, di continuo rigettata all’indietro da un consuetudinario gesto della mano fine, di donna o di abate d’altri tempi, era così piena di luce, da non dover temere i contatti con le tenebre o, peggio, con la greve atmosfera delle bettole affumicate. Ma gli uomini non vedevan la luce: gli uomini, ancora nascosti ed offesi dalla vita buia di un altro genio luminoso, scorgevano in Villiers, come avevan scorto in Carlo Baudelaire, un inseguitore di nuvole e di chimere, un perdinotti inutile, e forse nocivo, per una società ben ordinata e regolata.

Solo zia Kérinou (o «più che madre» indimenticabile, Maria Clemm di Edgard Poe!) seppe, unica per anni, comprendere gli entusiasmi e le speranze e la fede del poeta. Poi, altri, pochissimi, si avvicinarono, tendendo le mani: primi, Baudelaire e Wagner. Poi, ma col lungo volger del tempo, qualche giovane si soffermò, ammirando: Verlaine, Maeterlink; grandi nomi! E il poeta maledetto divenne caposcuola delle nuove generazioni. Ma la vita continuò a mostrarglisi dura: lo scoppio della guerra tra Francia e Germania soffocò fragoroso le nascenti voci di simpatia; e un morbo, rampollato dalla miseria e dalle eccessività d’ogni uomo di genio, sopraggiunse definitivo, il 18 agosto 1889, a travolgere nei gorghi della morte la spoglia corporea e a consacrare alla gloria l’arte di Giovanni Maria Mattia Filippo Augusto conte di Villiers de l’Isle-Adam.

Un solo amore, da giovinetto; qualche preziosa amicizia; molte ammirazioni seminascoste (in ritardo, quest’ultime); nessun episodio chiassoso, nessun viaggio, se non per udire le opere wagneriane. Esistenza, che può esser racchiusa in una frase. Ma l’ostinato sedentario, l’uomo che rifuggiva dagli spettacoli così detti poetici ed emozionanti (paesaggi, paesi: natura, mondo), non aveva bisogno di muoversi, non aveva bisogno di varcare la cinta della città per trovare spettacoli, per provare emozioni. Un intiero universo era nel suo cervello: un universo, che già conteneva quello reale, arricchito dalle visioni magnifiche di una immaginazione di poeta.

Un altro scrittore di genio viveva, in quei tempi, ignoto e ignorato. Ma, al contrario di Villiers, Ernesto Hello, il formidabile pensatore dal volto ecclesiastico, che passò a traverso Parigi provocando le risa dei molti col suo ingombrante ombrello verde di campagnuolo, balzava, leonino, a chiedere per qual motivo gli fosse contesa la gloria e sbalordiva vedendosi trascurato e non rammentava che le trombe della rinomanza facevano, in quegli anni, risuonare le vie del nome di Teofilo Gautier, un mortale, mentre il nome di Carlo Baudelaire, un immortale, germogliava ancora nell’ombra. Molti libri ho composti, diceva: per chi? per i tarli arabescati e la polvere divoratrice, becchini e lenzuolo funebre dei volumi invenduti? E non sapeva, Hello, che le querce tarde sono allo sviluppo, ma resistenti all’insidia dei secoli.

Villiers no, Villiers sapeva; e già aveva formulata la condanna dei contemporanei e costretto in quattro parole il destino dei proprii rari fratelli nello spazio e nel tempo, ruggendo sarcastico, fra due feroci sghignazzate: Niente genio, sovra tutto!

Il vero Villiers non è nelle pagine spirituali, solcate dai barbagli della fede e arroventate dalle fiamme della scienza occulta: non è né in Isis né in Asrael né in Akédysséril. E non è neppure, sebbene, qui, la personalità si affermi con maggior risolutezza, nelle acqueforti della vita: in Le signorine di Bienfilàtre (Guy de Maupassant appare già lì, precorso, per intiero) o nei drammi. Per trovarlo veramente, per rinvenire il filone d’oro puro, un po’ soffocato dalla pressione dell’influsso di Poe, maestro d’ogni spiritualità e d’ogni acquafortismo, occorre giungere ai migliori Racconti crudeli, al romanzo L’Eva futura e, sovra tutto, a Tribolato Bonomo.

Badiamo. Non bisogna chiedere a queste opere la risata di Voltaire o di Pulcinella: risata di letterato che, dal davanzale della finestra, contempli la piccola verità del mondo esteriore, ma ignori la grande verità racchiusa nel nostro mondo interno e, credendo di mostrarsi benefico verso l’umanità, distrugga con l’acido corrosivo dell’ironia i leggeri veli, distesi dall’illusione innanzi agli occhi degli uomini. Il poeta ride ben diversamente. Il poeta sa, per divina intuizione, che la verità obiettiva si risolve in una menzogna e che ogni velo, interposto fra i nostri sguardi e il mondo, ci aiuta a trovare in noi stessi la verità vera e a sopportare con minor disperato accoramento quelle fallaci: e perciò, appunto, se una furia d’uragano laceri le aeree trame tessute dal desiderio e spinga lui, tremebondo, a cozzare contro le deformi membra di una realtà denudata, cuopre gli urli e nasconde i gemiti della propria anima con le sghignazzate di Swift e le risate di Cervantes e le invettive di Dante. Così Villiers. La sua arma è il sarcasmo, non l’ironia; poiché l’ironia è una pallida fiamma di alcool, ma il sarcasmo è il vivo incendio del rogo, ove si straziano la carne stessa e l’anima del poeta. Oh, si sdilinquisca pure, e spasimi di voluttà, la critica, innanzi alla letteratura ironista, frutto di uno scetticismo privo di luce! Arricci pure la bocca, questa occhialuta signora, davanti ad opere, nelle quali il dolore, non potendo pianger liberamente, ha presa la tragica veste del sarcasmo e la spietata maschera della satira: e, non riuscendo a romper con i molli denti la dura scorza, che protegge la mandorla, tacci di grossolanità gli scrittori poeti! La critica è miope: ma la gloria è presbite.

Che cosa rappresenta Tribolato Bonomo, se non la personificazione di un dolore, che può rivelarsi solo, tanto è profondo e squassante, per mezzo della profonda satira, del sarcasmo squassante? Il segreto di un’epoca imbevuta di positivismo, desiderosa, al fisico come al morale, di una tranquillità, che non turbi i falsi orgogli per un falso progresso né le reali gioie di una laboriosa digestione, adoratrice, nella propria mediocrità, del mediocre idoletto Buon-senso; il recondito pensiero moderno, insomma, ha trovato un tremendo porta-voce nell’accorato poeta: e, pur subendo il destino delle età di transizione, travolte irremissibilmente (uomini e cose) dalla lor nullità verso il nulla, si è accaparrato nella storia, incarnandosi in Bonomo, un posto in piena luce. Ma Chiara Nero e i quattro racconti esplicativi non sarebbero bastati a sfogar la spaventevole ira, suscitata in Villiers dalla contemplazione e dallo studio degli scialbi figli di tempi scialbi. Altri progetti di libri, annunciati nell’Avvertimento per il lettore, si affacciavano tumultuando alla mente: e già Bonomo, indossata l’uniforme di generale d’esercito, ordinava ai soldati di «combattere e morire in difesa dei patrii interessi ferroviari» o, vestito da cacciatore di ermellini, creava un fucile carico di inchiostro per uccidere, nel modo più sicuro e più crudele, quei vigili gelosi custodi del lor bianco pelame, o si apparecchiava a raggiungere Gerusalemme, la città santa, per renderla moderna, imbrattarla, vituperarla con caffè-concerti e reti tramviarie (e, oggi, che delizia!, con pubbliche e private automobili). Ma la morte e, forse, l’incosciente livore degli uomini (non si parla, dunque, di un Taccuino di Tribolato Bonomo, composto e, poi, scomparso?) troncarono a mezzo l’impresa.

E tuttavia, a rivelare e a far comprendere Villiers, basta quel che rimane del suo sogno: basta la formidabile opera, il capolavoro satirico, che rispecchia e condanna, pur immortalandola, un’epoca, intitolato, appunto, Tribolato Bonomo.

PIERANGELO BARATONO.

Il mio nome è MOLTITUDINE.

NUOVO TESTAMENTO.

Avvertimento per il lettore

Offriamo, oggi, al pubblico, perché conosca l’UMORE del dottor Bonomo, dapprima tre racconti, in cui è profilato, a grandi tratti, il suo più intimo «io».

Di poi, lo stesso Dottore, discorrendo in persona prima, narra la stravagante istoria di Chiara Nero: storia, della quale gli lasciamo completamente la greve responsabilità.

Infine, un Epilogo.

Se questo Personaggio (autentico quanto altri mai!) otterrà un po’ di favore, come abbiam serio motivo di temere, daremo presto alle stampe, e non senza rammarico, gli Aneddoti, che lo han per eroe, e gli Aforismi, da lui stesso dettati.

VILLIERS DE L’ISLE-ADAM.

AI CARI
INDIFFERENTI

Lo sterminatore di cigni

I Cigni conoscono i segni.

VITTORE HUGO: I miserabili.

 

A furia di compulsare tomi di Storia naturale, l’illustre amico nostro, dottor Tribolato Bonomo, era riuscito ad apprendere che «il cigno scioglie un bel canto prima di morire». In verità (egli ci confessava ancor di recente), solo quella musica, dacché s’era rivelata al suo orecchio, aveva virtù di aiutarlo a sopportare le umane miserie: e qualunque altra sembrava a lui, ormai, frastuono e «roba da Wagner».

Ma in qual modo aveva potuto offrirsi quel godimento da buongustaio? – Così:

L’assennato vegliardo, avendo scoperto un bel giorno, nei dintorni della decrepita città fortificata, ov’egli ha dimora, ed entro un secolare parco in abbandono, uno stagno sacro ed antico ombreggiato da grandi alberi – e sul di cui cupo specchio quei miti uccelli scivolavano in dodici o quindici —, s’era dedicato a uno scrupoloso esame delle prode e ad un calcolo delle distanze, badando con particolar cura al cigno nero, sentinella degli altri, che dormiva sperso in un raggio di sole.

Ogni notte, quel cigno vegliava con occhi ben aperti, tenendo una liscia pietra nel lungo roseo becco: ciottolo ammonitore, ch’egli, al più lieve indizio di pericolo per i suoi protetti, con uno scatto del collo avrebbe bruscamente lanciato nell’acque, in mezzo al bianco cerchio dei dormienti. E, al segnale, la truppa, sempre da lui guidata, si sarebbe involata fra le tenebre, sotto i fondi viali, verso qualche remoto giaciglio d’erba o verso la fontana, laggiù, nella quale grigie statue si specchiano, o verso altri rifugi vivi nella memoria. A lungo Bonomo li aveva osservati, in silenzio: sorridendo loro, perfino. Non sognava, forse, di pascer le orecchie, da dilettante squisito, col loro ultimo canto?

Talvolta, dunque – sul mezzo di qualche illune notte autunnale —, Bonomo, tormentato da insonnie, si alzava di colpo e vestiva panni acconci al musicale trattenimento, ch’egli aveva necessità di riudire. Dopo aver sepolte le gambe entro interminabili stivali di ferrato caucciù, che si prolungavano, senza cucitura, in un’abbondante palandrana impermeabile, anch’essa debitamente foderata, il gigantesco e ossuto dottore faceva scivolare le mani in un paio di stemmati guantoni d’acciaio, residuo di qualche armatura del medioevo e dei quali egli era divenuto il fortunato proprietario mercé trentotto bei soldoni sborsati – una vera pazzia! – a un mercatante d’anticaglie. Dopo ciò, cingeva l’ampio cappello moderno, spegneva la lampada, scendeva e, intascata la chiave di casa, si avviava alla chetichella, da buon borghese, verso l’orlo del parco abbandonato. Ed eccolo avventurarsi, ben presto, per i cupi sentieri, in cerca del solitario ritiro dei suoi cantori preferiti – in cerca dello stagno, di cui le acque, poco profonde e già scandagliate in ogni parte, non gli oltrepassavan la cintola. E, sotto gli archi di fogliame vicini alle sponde, eccolo, al tocco dei rami secchi, far passo di lupo.

Giunto proprio sulla riva dello stagno, lentamente, oh come lentamente – e senza alcun rumore! – egli immergeva uno stivale, e poi l’altro, e procedeva, a traverso le acque, con inaudite cautele, tanto inaudite da concedergli a mala pena di respirare. Così un melomane, allorché la desiderata cavatina è imminente. Di modo che, per fare i venti passi, che lo dividevano dai prediletti cantanti, gli occorrevano generalmente da due ore a due ore e mezza: tanto temeva di destare la sottil vigilanza della nera sentinella.

L’alito dei cieli privi di stelle faceva lamentosamente frusciare, nelle tenebre intorno allo stagno, le alte chiome degli alberi: – ma Bonomo, punto preoccupato dal misterioso mormorio, si inoltrava sempre insensibilmente, e con tale cura da trovarsi, invisibile, verso le tre del mattino, a mezzo passo di distanza dal cigno nero senza che questo avesse percepito il più piccol segno della sua presenza.

Allora il buon dottore, sorridendo nell’ombra, strofinava dolcemente, molto dolcemente, sfiorava appena, con la punta dell’indice medioevalizzato, innanzi al vigilatore, l’annullata superficie dell’acque!… E tanto dolce ero lo strofinamento, che il cigno, se ben stupito, non poteva ritener meritevole del getto della pietra un allarme così indefinito. Stava in ascolto, il cigno. Ma, con lo scorrer del tempo, il suo istinto s’imbeveva nebulosamente dell’«idea» del pericolo e il suo cuore, oh l’ingenuo povero cuore, cominciava a battere terribilmente: – la qual cosa faceva gonfiar Bonomo di letizia.

Ed ecco che i bei cigni, turbati nel profondo sonno da quel rumore, l’un dopo l’altro traggon la testa, ondulando, di sotto alle pallide ali d’argento, – e, oppressi dalla greve ombra di Bonomo, per una confusa coscienza del pericolo mortale, da cui son minacciati, si lasciano a poco a poco travolger dall’ansia. Ma, nella lor delicatezza infinita, essi soffrono in silenzio, al pari del vigilatore, – non potendo fuggire, «poiché la pietra non è stata lanciata!» E tutti i cuori dei bianchi esiliati cominciano a battere colpi di sorda agonia – «intelligibili» e nitidi per l’inebriato orecchio dell’eccellente dottore, il quale, – sapendo bene, altroché, quali effetti produca in essi, «moralmente», la sua semplice vicinanza, – si bea, tra ineffabili prurigini, della terrificante sensazione, provocata dalla sua immobilità.

Com’è dolce incoraggiare gli artisti!, egli dice sottovoce a sé stesso.

L’estasi, che non sarebbe stata barattata da lui neppur con un regno, durava tre quarti d’ora, all’incirca. A un tratto, il raggio della Stella mattutina, scivolando a traverso i rami, illuminava, di colpo, Bonomo e le nere acque e i cigni dagli occhi pieni di sogni! Folle di paura per l’improvvisa apparizione, il vigilatore scagliava la pietra… – Troppo tardi!… Con un orribile strido, in cui sembrava smascherarsi il suo inzuccherato sorriso, Bonomo si avventava, a grinfie alzate e a braccia tese, a traverso le file degli uccelli sacri! – E fulminee eran le strette delle dita di ferro di quel moderno prode: e i puri colli di neve di due o tre cantori eran soffocati o stroncati prima del radioso involamento degli altri uccelli-poeti.

Allora, l’anima dei cigni morenti, dimentica del buon dottore, si esalava, in un canto d’immortale speranza, di liberazione e di amore, verso ignoti cieli.

Il raziocinante dottore sorrideva di quella sentimentalità, di cui, da giudizioso intenditore, si degnava di assaporare soltanto una cosa: IL TIMBRO. Né pregiava altro, musicalmente, se non la rara dolcezza «del timbro» di quelle voci simboliche, le quali vocalizzavan la morte come una melodia. A occhi chiusi, Bonomo aspirava nel proprio cuore le armoniche vibrazioni: poi, barcollando come per vertigine, andava a incagliarsi sulla riva, allungandosi sull’erba, coricandosi a pancia per aria, tutto chiuso nei panni caldi ed impermeabili. E lì, quel Mecenate dei nostri tempi, immerso in un voluttuoso torpore, riassaporava, nel fondo di se stesso, il ricordo del canto delizioso – se ben contaminato da una sublimità, a parer suo, fuori di moda – dei benamati artisti. E crogiuolato dall’estasi soporifica, ruminava così, chiotto chiotto, da buon borghese, fino al sorger del sole, la squisita impressione.

Proposta del dottor Tribolato Bonomo intorno al modo di render utili i terremoti

Allorché Faramondo cinse la tiara, la Francia era soltanto un’ampia paludosa distesa, – molto più acconcia ai diguazzamenti dell’anitra selvatica… che al regolare svolgersi delle Istituzioni costituzionali.

Un savio moderno.


«Ci aggiriamo, forse, in un paese fantastico, di cui saremmo i… castelletti di carte?

«E che! Dopo aver festeggiata, di bel nuovo, un’ingenua avita tradizione, – questi carnascialeschi giorni inebrianti per la gioventù —, e proprio sul punto di abbandonarci al sonno, ecco irrompere entro i nobili cortili dei palagi più rispettabili, nella nostra stessa capitale, orde sgorganti dai treni della sera e molto succintamente vestite (affé, in qualche gentildonna il terrore s’era spinto fino all’impudicizia); ecco che i maggiordomi, riputandosi zimbelli di morbose allucinazioni – o, altrimenti, di uno sfocio di ballerini da taverna, – spalancan la bocca innanzi allo spettacolo mentre, chiamati in fretta e furia e già dubitosi di qualche altro brutto scherzo anarchico, gli accorsi tutori di quella pace, – più cara a noi di ogni altra cosa, salvo la vita, – si liscian taciti il pizzo nell’udire le confidenze ancor tremule di tutti i fuggiaschi, ai quali essi porgon distratto orecchio e rivolgon, di sbieco, occhiate sospettose.

«In verità, quando la forza elettrica, con telegrammi da laggiù, costrinse ognuno ad accettar l’evidenza, noi, confessiamolo, non sapemmo più cosa pensare. C’era di che credersi in pieno Medioevo!